Frida Kahlo, la donna che visse morendo. Dolore e creazione nelle opere e negli scritti

Piccola. Fiera. Gioiosa. Battagliera. Secondo Herrera un personaggio degno dalla penna di Gabriel Garcia Marquez. È così che il mondo ricorda l’iconica pittrice messicana Frida Kahlo. Una donna a pezzi che, in realtà, i suoi 47 anni di vita li visse tutti «morendo». Schiacciata da un dolore che rese l’oggetto esplicito dei suoi quadri e dei suoi scritti. Spinta da un innato, da un incoercibile bisogno di raccontare e di raccontarsi. Perché è questo che per tutta la vita Frida fa. Si racconta. Lasciandosi scappare, di tanto in tanto, qualche piccola bugia bianca di cui, si sa, anche i miti hanno bisogno, se vogliono affermarsi come tali.

Frida, una bambina sola. Infanzia di malattia, solitudine e fantasia

Frida ostenta la sua alegrìa come un pavone esibisce la coda, ma d’altro non si tratta se non della dissimulazione di una tristezza e di una introversione profonda, ai limiti dell’auto ossessione. – Hayden Herrera

Terza figlia di un matrimonio senza amore, Magdalena Carmen Freda Kahlo Y Calderon nasce il 6 luglio del 1907 in una casa fra le case a Coyoacan (una delegazione di Città del Messico). Sin dal principio la sua vita è un atto di ribellione. È per questo, forse, che Frida (mentendo) sceglie come anno di nascita quello che segna l’inizio della rivoluzione messicana (1910). Stessa cosa dicasi del nome. ‘Freda’. In tedesco ‘pace’. Con cui la pittrice si firma fino agli anni ’30, per poi ritoccarlo in ‘Frida’ per protesta al nazi-fascismo.

Insomma, una donna, una bambina difficile da domare. Forse impossibile, visto che fallì persino la «religiosità isterica» della madre (nei diari «mi jefe», il mio capo). Che la spediva a catechismo, per vedersela scappare nel cortile adiacente a rubacchiare bacche di biancospino e mele cotogne. Perché Frida è fatta così.

La poliomite: il primo dei mali

Ed è triste e paradossale che, a soli sei anni, la poliomielite scelga di colpire proprio lei (il suo piede destro).
Alla degenza di 9 mesi la bimba sopravvive trovando rifugio nella sua fantasia. Nella compagnia della sua «niña», l’amica immaginaria che entra dalla porta che Frida disegna sulla finestra, dopo averci alitato sopra.

Finita la degenza, per rinforzare l’arto, si dedica al calcio, alla lotta libera e alla boxe, sport inadatti alla ragazzina per bene con cui il mondo pretende di identificarla. Così, mentre «pedala come un demonio» i coetanei la inseguono per farsi beffe di lei e della sua «pota de palo» (sp. gamba di legno).

Come osserva Herrera, proprio negli anni in cui avrebbe dovuto «espandere il mondo oltre la cerchia famigliare è prima costretta a casa e poi, tornata a scuola, derisa ed esclusa». Frida è una bambina sola e, cosa poco comune, sin troppo consapevole di esserlo. È proprio lei a raccontarsi e a dipingersi così nei quadri e negli scritti dedicati alla sua infanzia.

L’incidente che la mise al tappeto e l’arte che Frida usò per alzarsi

Nel 1922, Frida è una delle pochissime ragazze (35 in tutto) che si iscrivono alla Scuola Nazionale Preparatoria. Fra lei e i Chachucas (la cricca di socialisti che terrorizza la scolaresca coi suoi scherzi non proprio innocenti) è amore a prima vista. Così come fra lei ed Alessandro, il loro sensuale e carismatico leader. Con cui Frida, di nascosto dalla famiglia, avvia una appassionata relazione di cui possiamo ricostruire gli alti e bassi dalle lettere che i ragazzi si scambiarono per tutti gli anni a seguire («Scrivimi» lo implora lei in una lettera del 1927 «e soprattutto amami»).

Negli anni della scuola si distingue più come una studentessa ‘monello’ che come una studentessa modello. Lettrice, amante e rivoluzionaria appassionata, ritiene suo diritto frequentare solo le lezioni di suo interesse, disertando le altre. Di nuovo, sembra che non ci sia niente che possa fermarla. Almeno fino al settembre del 1925. Al giorno in cui lei ed Alessandro salgono insieme su uno degli autobus guidati «con spericolatezza da corrida» fra le strade di Città del Messico. Autobus che terminerà la sua corsa sfortunata contro un muro all’angolo del mercato di San Juan (dai diari: «un corrimano mi trafisse nello stesso modo in cui una spada trafigge il toro», «persi la verginità»).

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All’incidente Frida sopravvive con l’osso del collo e con due costole rotte, con la colonna vertebrale spezzata in tre punti, con 11 fratture alla gamba destra e con un piede schiacciato e dislocato. Ma sopravvive. In barba allo scetticismo dei medici a cui tocca rimetterla insieme pezzo pezzo («come se stessero facendo un fotomontaggio», scrive). È qui che ha inizio il suo lento declino. Declino costellato da operazioni continue («detengo il primato delle operazioni»), dall’allontanamento del suo primo amore e dal busto di gesso che, di nuovo, la costringe a vivere come una reclusa. A salvarla, stavolta, ci pensa l’arte.

Tutto quello che le rimane sono le braccia e, di nuovo, la sua fantasia. Se le fa bastare. Per iniziare a dipingere, per alzarsi ancora una volta non le serve altro. Forse solo i colori e i pennelli di cui commissiona l’acquisto e lo specchio che fa fissare sopra al suo baldacchino. Ed è qui, dalla convivenza forzata con sé stessa e con il suo «corpo ferito», dalla rabbia di vivere con cui osa sfidare la Santa Muerte in persona, che il genio di Frida trova la chiave. Quella che la porta a fare di sé stessa, del suo volto, della sua storia la sua unica vera opera d’arte. A prendere tutto l’orrore e il dolore della sua vita per trasformarli in stelle. Perché l’arte, secondo gli antichi, arriva proprio da lì: dalle stelle, dagli dèi che le abitano e che, quando siamo posseduti dall’ispirazione, ci abitano.

Il secondo incidente di Frida. L’ascesa artistica e la relazione con Diego Riveira

Sin dal principio la produzione artistica di Frida mostra l’impronta specifica e personale che la renderà iconica. Soprattutto per via della sua, con Malatesta, «forte, narcisistica, esibizionistica compiacenza del dolore e dell’orrore». Ma quella di Frida non è compiacenza. È la rassegnazione -e allo stesso tempo la leggerezza- di chi, avendo rinunciato a scacciarli, abbia (molto nietzschianamente) scelto di danzare con i propri mostri.

Perché Frida fa questo. Prende per mano il suo demone ferito e intinge i pennelli nel sangue e nelle lacrime che ne caratterizzano l’esistenza. La sua arte è la perla che nasce del dolore dell’ostrica, che crea la perla senza farci caso, quando in realtà si sta solo difendendo dall’incursione di un granello di sabbia. Allo stesso modo, «senza farci caso», come dirà lei, Frida dipinge. Principalmente sé stessa (di 143 dipinti 55 sono autoritratti). E, in forte contrasto con le scimmiette, con i pappagalli, con i nastrini e con i colori sgargianti che gli fanno da cornice, il suo dolore.

Un dolore che, allo scopo di essere estratto e astratto, viene da lei pornograficamente e provocatoriamente esibito. Sbattuto in faccia al mondo allo scopo di farne una cosa di tutti e, al tempo stesso, di nessuno. Il dolore della sua infanzia, quello della malattia, quello degli aborti ripetuti («i bambini sono i giorni e io qui finisco») e, infine, quello della storia d’amore con Diego Riveira. Il pittore già celebre in tutto il modo di cui Frida parlerà come del suo secondo incidente («in vita mia mi sono capitati due incidenti gravi (…) il primo quando un tram mi ha messa al tappeto…l’altro incidente è Diego»)

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L’uomo «squisitamente grasso» e carismatico, capace di attirare le donne «come spilli», che, dopo averla sposata nel 1929, la tradirà continuamente (persino con sua sorella). Con lui Frida sale su una giostra di amore e odio, di riappacificazioni e allontanamenti continui, da cui nessuno dei due sarà mai davvero capace di scendere. In particolar modo lei. Di cui, dopo una vita vissuta all’insegna di un dolore che non ha scelto, questo dolore lo sceglie perché, forse, in fondo, ne ha ‘bisogno’.

Le serve per riconoscersi. Per rispecchiarsi. Per sentirsi tutta intera. Per sentire all’intensità a cui una donna del genere è capace, ha bisogno di sentire. E di quella strada verso il Golgota che sarà la loro relazione, Frida, fieramente, disperatamente, annota su carta e mette su tela tutti gli inciampi, tutte le tappe. E, allo scopo di sentirlo finalmente suo («Perché lo chiamo il mio Diego?»), lo rappresenta. Fra le sue braccia, come il figlio che non ha mai saputo dagli. Al centro della sua fronte, come un tarlo che monopolizza i suoi pensieri. E si rappresenta. Divisa in due. Accoltellata a morte da quell’uomo che «appartiene solo a sé stesso» e che, comunque, non riesce a lasciare andare.

Dire «in tutto» è stupido e magnifico
Diego nelle mie urine
Diego nella mia bocca
Nel mio cuore -nella mia follia- nel mio sogno (…)
Nelle matite, nei paesaggi, nel cibo, nel metallo (…)
Nelle sue menzogne (…)

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L’arte di Frida come “un fiocco legato a una bomba”

Dell’arte di Frida, André Breton, che in America la conobbe di persona, parla come di «un fiocco legato a una bomba». E quella bomba, ormai lo sappiamo, altro non è che quello sconfinato, quel pericolosissimo, quel quello straordinario oceano emotivo che la donna ebbe la fortuna (o forse la sfortuna) di ricevere in sorte. Un oceano di dolore, di emozioni vissute all’ennesima potenza che erano troppe e troppo grandi, forse, per affrontarle tutte da sola senza fare qualcosa perché il mondo le prendesse un certo senso in carico. Cosa che, per fortuna, il mondo ha fatto.

Di Frida, Herrera parla come di «un’eroina tragica in un corpo da colomba». Di una donna che cade a pezzi e che al tempo stesso canta, dice parolacce e beve tequila come un marinaio, perché la gioia di vivere che nonostante tutto la sostanzia è l’altra faccia della medaglia di quel dolore immenso che la abita. In fondo sono la stessa cosa. Senza una cosa non ci sarebbe l’altra. E Frida lo sa. Non l’ha scritto e non l’ha dipinto da nessuna parte, ma l’ha sempre saputo. Ha sempre saputo che quei 47 anni di vita vissuti «morendo» valevano la pena di essere vissuti, di essere amati, odiati e sofferti fino all’ultima goccia.

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