
“Il cielo della Sfinge” di Gianluca Sità, pittore calabrese della classe ’79, è uno dei suoi quadri più rappresentativi. Il quadro è stato realizzato olio su tela nel 2015. La pittura contemporanea fatica a essere decifrata e fruita per le immagini che spesso, come in questo caso, inquietano e costringono ad una lettura più attenta. Da tempo la pittura attraversa un momento di crisi, soppiantata com’è, dalle immagini dei media, molto più fruibili e immediate. Sità cerca un modo personale e proprio, di opporsi a questo disfacimento della pittura, raccontando l’incredibile, quell’impossibile sconosciuto all’Antiarte.
L’Eresia del Mito
Nella sua pittura l’incredibile ha un nome e un cognome precisi, quelli del mito classico che l’artista manipola ed altera per avvolgerlo nelle spire del proprio delirio. Le antiche storie, in quanto tali, sono fuori dal quotidiano e dall’attualità, così Gianluca Sità si rifugia lì e si libra in un’aria rarefatta cercando di raccontarne gli aspetti mai narrati. La sua arte si riconosce per l’impronta surreale e onirica, l’uso di colore spesso cupo, mai aggrumato, steso perfettamente per creare atmosfere senza tempo e senza spazio, con il fine di raccontare l’incredibile.
Per Gialuca Sità l’arte nel suo profondo e nel suo vertice è assolutamente irriducibile alla realtà, da qui il suo inserirsi nel filone Böcklin – De Chirico – Surrealismo. Di questa negazione del mondo, il mito è senz’altro il fiore all’occhiello e la puntuazione di forza, attraverso di esso si spalanca trionfalmente il contro universo dell’immaginario. Questo è il luogo regale dell’invenzione e dell’illusione. L’immaginario è inoltre il regno del sogno, dell’eros e delle storie più belle.
“Il cielo della Sfinge” di Gianluca Sità
La Sfinge del cielo è una divinità mitica, la divinità dell’insolito e dell’enigma. Nel quadro di Sità, il mostro non è neanche accompagnato da Edipo e colloquia con un universo che non offre alcuna risposta e alcuna soluzione. O meglio, una soluzione esiste, ed è quella dell’arte. La Sfinge a guardar bene è l’arte in sè, che nell’allucinazione neo simbolista dell’artista sfida il cosmo e dissolve la realtà, opponendo a questa la sua capovolta verità.
«Nessuno. Credo sia pretenzioso – almeno per me – pensare di poter trasmettere proprio quel messaggio alla gente. Un quadro o, comunque, un’opera d’arte deve accendere un’emozione, qualsiasi essa sia, positiva o negativa, deve suscitare qualcosa e se questo accade vuol dire che chi l’ha creata è riuscito a dare un’anima al pezzo e, dunque, ad arrivare al fruitore. Alla fine, quando esponi un quadro non è più tuo, ma di chi lo osserva e gli dà la sua interpretazione, che non deve coincidere per forza con quella di chi ha creato il pezzo» – Gianluca Sità
Con “Il cielo della Sfinge” di Gianluca Sità di fronte un “quadro per sognare” in grado di evocare stati d’animo diversi in funzione della visione della vita e della morte dell’osservatore coinvolto. In questo modo si possono decifrare gli enigmatici contenuti proposti nel segno di una completa autonomia interpretativa. Come Böcklin prima di lui e a cui Sità si ispira, il suo orientamento è per la corrente pittorica del simbolismo. Infatti, come afferma Stèphane Mallarmè, i simbolisti si prefiggono di «Rendere visibile l’invisibile con immagini criptiche, sconvolgenti, rivelatrici».
Il mito greco di Edipo e la Sfinge
La Sfinge nella mitologia egizia era un monumento che veniva costruito vicino alle piramidi come simbolo protettivo per augurare una serena vita nell’aldilà al faraone. Ha corpo leonino e testa umana maschile in riferimento al faraone che doveva proteggere. La sfinge egizia più grande e famosa è la Grande Sfinge di Giza, adiacente alle Grandi Piramidi. Invece nel mito greco di Edipo la Sfinge era un essere mostruoso, un ibrido alato con testa di donna e corpo di leonessa nato dal rapporto incestuoso tra la bestiale Echidna e suo figlio Ortro, cane a due teste. Secondo il mito custodiva l’ingresso alla città greca di Tebe. Per consentire il passaggio solo a persone degne, le testava porgendo loro un quesito al quale dovevano rispondere.
La Sfinge chiedeva a tutti i passanti quello che forse è il più famoso enigma della storia: «Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, tripede e bipede?» La Sfinge strangolava o divorava chiunque non fosse in grado di rispondere. Nel mito greco Edipo risolse l’enigma rispondendo «L’uomo, che nell’infanzia striscia a quattro zampe, poi cammina su due piedi in età adulta, e infine utilizza un bastone da passeggio in età avanzata». Secondo alcuni resoconti c’era anche un secondo indovinello (molto più raro): «Ci sono due sorelle: la prima dà alla luce l’altra e questa, a sua volta, dà vita alla prima. Chi sono le due sorelle?» La risposta è: «Il giorno e la notte».
Prima che Edipo rispondesse correttamente, molti tebani avevano incontrato la morte. Se proprio un significato vero e profondo possiamo ricercare ne “Il cielo della Sfinge” di Gialuca Sità, è in realtà un impulso del tutto soggettivo nato dall’inconscio del singolo osservatore. Le eterne domande dell’uomo rimangono senza risposta e il cielo della Sfinge appare, nel quadro, plumbeo e indifferente.