“Le visage de la guerre” di Salvador Dalì, il volto della guerra dalla crudezza attuale

“Le visage de la guerre” di Salvador Dalì -il volto della guerra- introietta l’esperienza bellica in un dipinto con il quale raccoglie ed elabora le proprie suggestioni dando loro un volto. La guerra fa riflettere, smuove le coscienze, alimenta le paure.

“Le visage de la guerre” di Salvador Dalì, il volto della guerra, analisi, descrizione e significato

Un volto indefinito, deformato dalla sofferenza, senza vita, campeggia su uno sfondo desertico, occupando la quasi totalità del campo visivo dell’opera. In una smorfia di dolore le orbite si sgranano, le labbra si spalancano e ogni orifizio svela al suo interno la presenza di un teschio, che a sua volta ne contiene altri e altri ancora. La morte si moltiplica in maniera esponenziale in una sequenza onirica senza fine, annientando qualsiasi possibilità di speranza futura.

La tensione che si percepisce è la stessa a spezzare il fiato quando non ci si riesce a svegliare da un incubo terrificante. Né una duna muove il deserto, né una nuvola solca il cielo, l’unico elemento vivo è rappresentato dalle spire dei serpenti, che minacciosi si protendono nello spazio, famelici di morte. Tra le opere che compongono lo sterminato corpus di opere di Dalì, questa è senza dubbio tra le più cupe.

Realizzata nel 1940, l’opera sintetizza l’angoscia provata dallo spregiudicato artista catalano tra la fine della guerra civile spagnola e le fasi iniziale della seconda guerra mondiale. Tuttavia, grazie al suo messaggio universale, “Le visage de la guerre” di Salvador Dalì rappresenta un’allegoria della guerra in generale.

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Il “Volto della guerra” ha inizio dalla storia

Pochi giorni prima che i tedeschi invadessero Parigi, Salvador Dalì si trovava in Francia. Lui stesso ha raccontato di quei giorni e del suo desiderio di tornare in America, dell’ansioso viaggio intrapreso con alcuni suoi colleghi e amici per fuggire dall’Europa, nonché della sua difficoltà nel trovare la serenità per lavorare.

Fuggito da Arcachon, in compagnia di Marcel Duchamp, attraversò la Spagna facendo tappa a Figueras e Port Lligat, per riabbracciare la sua famiglia d’origine e rivedere la casa che aveva dovuto abbandonare a causa della guerra civile. A Lisbona poi incontrò Elsa Schiaparelli, René Clair e Paderewski e tutti insieme riuscirono a imbarcarsi alla volta degli Stati Uniti. Di nuovo a New York l’artista non impiegò molto tempo a tornare produttivo, come testimonia proprio “Le visage de la guerre”, tra le prime opere a essere licenziate dopo l’allontanamento dalla guerra.

“Le visage de la guerre” di Salvador Dalì, significato e simboligie

Nello straordinario eclettismo che caratterizza il lavoro di Salvador Dalì “Le visage de la guerre” si cala perfettamente nello spirito surreale che, tra automatismo psichico e “metodo paranoico-critico”, permea le opere degli anni ‘30 e ‘40.

L’ambientazione del dipinto riporta il soggetto in quella stessa realtà aliena, sospesa nel tempo e nello spazio, che come un fil rouge contestualizza le assurde creazioni dell’artista, riconducendole tutte al suo inconscio. Orizzonti che separano l’oro della terra dall’azzurro del cielo fanno da sfondo al volto assopito sorretto da grucce de “Il sonno”, come anche agli orologi molli de “La persistenza della memoria” e alle lunghissime gambe degli elefanti de “La tentazione di Sant’Antonio”.

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Quell’enorme distesa desertica che si protende all’infinito altro non è infatti che un’emanazione della sconfinata immaginazione del maestro catalano. Fa spesso da cornice a composizioni di ampio respiro, in cui i vari soggetti occupano comodamente lo spazio in una distensione temporale che li rende leggeri, inconsistenti, aleatori.

Nel caso de “Le visage de la guerre – Il volto della guerra” il paesaggio è totalmente scabro e il soggetto è schiacciato in un primissimo piano che taglia persino la sommità della fronte del volto mostruoso. Le rocce che smussano gli angoli destri e le ombre che incupiscono gli angoli sinistri dell’opera restringono ancora di più il campo visivo sul volto per farlo maggiormente risaltare. L’angoscia derivante dalla morte è totalizzante e non lascia spazio ad altre emozioni. Persino l’impronta di una mano impressa sulle rocce in basso a destra rimanda ad un’umanità ormai perduta.

Il tema della morte nel quadro sulla guerra di Dalì

Prima di giungere alla realizzazione dell’opera definitiva, Salvador Dalì lavorò su diverse suggestioni semanticamente satelliti del tema della morte. In un disegno preparatorio, immaginò un occhio invaso dalle api, in una stampa invece raffigurò due ubriachi con delle teste disegnate al posto degli occhi.

La composizione dell’opera finale -un olio su tela di 64 x 79 cm- dovette soddisfare particolarmente l’artista tanto da volerla riprodurre in alcune scene del film “Moontide”, una produzione per la quale Dalì era stato assunto per creare una sequenza onirica che riproducesse lo stato di ubriachezza di un personaggio. Le scene proposte dall’artista tuttavia furono considerate troppo forti per il cinema per cui alla fine non vennero mai realmente girate.

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L’ossessione per la morte e i teschi non abbandonò più l’immaginario di Dalì, anche svariati anni dopo la fine della guerra. Diventa ad esempio il soggetto principale di “In Voluptas Mors”, lo scatto realizzato in collaborazione con Philippe Halsman agli inizi degli anni ‘50, in cui tuttavia la morte viene analizzata attraverso un punto di vista opposto rispetto a quello espresso ne “Le visage de la guerre”.

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