
Precursore della Pop Art e tra i maggiori pittori realisti americani, Edward Hopper è soprattutto il pittore che è riuscito a dipingere la solitudine del ‘900. È conosciuto per le sue rappresentazioni di vita quotidiana urbana in ambienti domestici e luoghi pubblici, dove sembra non ci siano rumori. Con uno stile particolarissimo, fatto di immagini quasi fotografiche, realizza opere senza tempo che rappresentano in tutto e per tutto l’animo umano.
Il realismo metafisico di Edward Hopper
Lo stile pittorico di Edward Hopper si sviluppa in modo molto personale con forme delineate e una costruzione delle scene quasi cinematografica che subisce l’influenza delle inquadrature fotografiche di Degas, conosciuto nel periodo a Parigi. I suoi quadri ricordano le locandine dei film e trasudano realismo al limite dell’inquietudine.
Ama rappresentare vedute metropolitane spesso deserte, dove raramente è presente più di una figura umana. Si focalizza sulle architetture che compongono l’ambiente utilizzando spesso elementi orizzontali, come strade o binari ferroviari per delimitare gli spazi all’interno dell’immagine. Crea dei quadri molto geometrici con un ricercato gioco di luci. Usa colori densi e caldi, ma che non trasmettono vivacità, sembrando quasi privati della loro brillantezza nonostante l’utilizzo di acquerelli e acqueforti. Anche la luce infatti non crea contrasto, ma si diffonde nel quadro restando sempre fredda, penetrante e artificiale.
Proprio questo particolare utilizzo della luce, secondo lo scrittore francese André Breton teorico del surrealismo, lo avvicina a Giorgio de Chirico. Entrambi riproducono spazi reali, ma con elementi metafisici che generano nello spettatore un forte senso di inquietudine. Si potrebbe definire quello di Hopper un realismo metafisico, denso di silenzio e pieno di misteri. Non a caso “House by the Railroad”, in cui la luce del sole non riduce la tristezza della grande casa vittoriana, ispira “Psyco” di Hitchcock per la Bates House.
La pittura di Hopper è il frutto di un’elaborazione mentale più che visiva. Gli oggetti che vengono inseriti nei suoi dipinti, così come le persone ritratte, sono spesso ricostruzioni arbitrarie realizzate da un insieme di memorie fissate nella sua mente. Ci sono elementi ricordati e appartenente ai contesti e momenti più svariati, così come ce ne sono di fantasia, mescolati ai primi e altrettanto funzionali.
Le opere di Edward Hopper: malinconia, solitudine e immobilità
Edward Hopper viene definito il “pittore del silenzio” perchè dai suoi quadri emergono distacco e incomunicabilità tra i soggetti. Regna l’immobilità e la staticità, nessuno parla, si guarda o ha uno slancio energico. Le persone coinvolte sono imprigionate in azioni quotidiane e immerse nei propri pensieri in un atteggiamento di profonda solitudine. Il più delle volte la direzione degli sguardi va al di là del confine del quadro, si rivolge a qualcosa che lo spettatore non vede. E quelle poche occhiate presenti sono sempre sfuggenti.
«Le persone di Hopper paiono non avere occupazioni di sorta. Sono come personaggi abbandonati dai loro copioni che ora, intrappolati nello spazio della propria attesa, devono farsi compagnia da sé, senza una chiara destinazione, senza futuro.» – Mark Strand, poeta canadese
Anche le figure femminili sono cupe, pensierose e con lo sguardo perso. L’unica modella per le sue protagoniste è la moglie Josephine Nivison. Jo, come la chiama il marito, è anch’essa pittrice, ma lascia la sua carriera per diventare la musa del pittore. Rimpiange però di aver abbandonato quel mondo e addirittura dopo aver posato per un ritratto ed averne visti i risultati, scrive nel suo diario:
«una triste esperienza. (…) Mi fa sembrare una creatura pesante e ciondolante, come se avessi bevuto. (…) Anche Edward pensa che non mi somigli affatto, ma proprio non riesce a dipingermi per come sono, non ne ha la capacità.»
L’America di Hopper scruta immobile in se stessa
A differenza dei colleghi precedenti e contemporanei, Hopper non dipinge per veicolare messaggi politici. Non si fa travolgere dall’energia dei mitici anni ’20, dalla spinta delle nuove scoperte e invenzioni. L’ America di Hopper è quella che si svolge all’interno delle mure domestiche, quando nessuno guarda e non ci sono maschere da indossare. È la risposta umana alla velocità del progresso e all’ottimisto imposto. Si rivolge all’interiorità e gli chiede come si sente. L’altra faccia della medaglia.
Le persone nei suoi quadri conducono una vita tranquilla e rappresenta la modernità con scene di isolamento fisico o psicologico. Edward Hopper non ama che le sue opere siano considerate solo per il tema della solitudine e dell’alienazione e, come dice all’amico Brian O’Doherty, «questa storia della solitudine è esagerata».
Ciononostante nei dipinti newyorkesi il disagio degli esseri umani è palpabile. Disagio reso ancora più evidente dal fatto che Hopper dipinge osservando dentro le case e i locali, quasi a voler violare la privacy dei suoi soggetti. Le porte e le finestre non sono più un affaccio verso il mondo esterno, ma diventano il mezzo con cui il mondo esterno entra in quello che dovrebbe essere il guscio protettivo delle persone.
In “Room in New York” del 1932 lo spettatore infatti diventa testimone di un momento di vita di una coppia americana. Tra i due protagonisti nessuna comunicazione, in parte causata dalla posizione della donna, voltata quasi a dare le spalle all’uomo. L’unico elemento che li collega è un tavolo rotondo, simbolo della loro domesticità. Hopper fa una rappresentazione accurata anche dell’abbigliamento dei protagonisti e delle loro posizioni, forse se ne possono quasi ascoltare i pensieri. Segno questo che ha trascorso molto tempo a scrutarli, e l’osservazione non si limita alle case.
È il caso dell’emblematico “Nighthawks” di Edward Hopper. L’immagine ritrae una scena in un ristorante del Greenwich Village. I personaggi ricordano vagamente dei malavitosi e fanno pensare ad una scena di film gangster. Il barista è l’unica figura animata che cerca di interagire con le altre. Il particolare più inquietante è che nel locale non c’è la porta, nessun modo per entrare o uscire. Sembra che siano in un acquario urbano e forse quel locale è proprio un rifugio per chi è solo.
«Ho dipinto, forse senza saperlo, la solitudine di una grande città.» – Edward Hopper
Breve sinossi
Nasce nel 1882 a Nyack, piccola cittadina sul fiume Hudson, da un’americana famiglia borghese. Pensa di avere un futuro da architetto navale ma, vista la sua propensione al disegno, i genitori lo convincono a studiare arte. Frequenta così la New York School of Art. Dopo la laurea inizia a lavorare in un’agenzia di pubblicità e vola a Parigi per lasciarsi affascinare dalla pittura impressionista.
Quando torna dal viaggio, Hopper apre il suo studio a New York dove comincia a dipingere la vita della città, continuando a fare il pubblicitario per pagarsi le spese. Il successo non è immediato e solo dopo diversi anni le sue opere gli permettono di abbandonare la pubblicità. Così, silenziosamente e senza clamore, comincia ad osservare l’America rappresentandone i suoi lati più alienanti e cupi.