“Air pressure” di Abu Hamdan, quando l’arte fa rumore

Lawrence Abu Hamdan è il terzo assegnatario della Future Field Commission in Time-Based Media, iniziativa della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in collaborazione con il Philadelphia Museum. “Air Pressure – A diary of the sky” di Abu Hamdan porta alla ribalta questo giovane architetto che come prima professione svolgeva quella (non poco affascinante) di fonico forense.

Ribattezzato ormai artista già da qualche anno, il giovane Abu Hamdan nasce nel 1985 ad Amman e attualmente è a capo di un prolifico gruppo di artisti tutti residenti a Beirut. Da qualche anno si è specializzato nella creazione di installazioni multimateriche che trasformano temi di spinosa attualità in sconcertanti opere d’arte. La torinese Fondazione Rebaudengo ospiterà fino a tutto febbraio l’ultima sua creazione di “Air Pressure” che è, in sostanza, il diario di ciò che avviene nei cieli libanesi dal 2007: ad attestare la veridicità dei temi trattati nell’opera, tutte le minuziose ricerche condotte dall’equipe di Abu Hamdan sono anche consultabili in un sito web che rende fruibili a chiunque i dati meticolosamente raccolti in un ampio periodo temporale.

“Air pressure. A diary of the sky”: la mostra multimaterica di Abu Hamdan

Scopo del progetto è testimoniare le ripetute violazioni dello spazio aereo libanese da parte dell’aeronautica israeliana. Ma non solo: i dati catalogati da Abu Hamdan fanno emergere il reale risvolto, quello più clinico, dei danni arrecati alla salute dei libanesi, che sono poi gli identici danni che subivano i tedeschi nella Berlino quadri-occupata all’indomani degli accordi di Yalta.

Infatti i costanti rumori cui sono sottoposti i libanesi, dell’ordine minimo di 87 decibel, sono scientificamente suscettibili di minare la salute di chi li ascolta: attacchi d’ansia, ipertensione, depressione e alterazioni metaboliche sono le patologie riscontrate nella popolazione libanese, nonchè gli aspetti più evidenti di un malessere psicologico che tedia così un’intera nazione che ancora stenta a rassegnarsi allo stato di totale abbandono in cui il proprio governo ha deciso di lasciarla.

L’installazione audio-video di Abu Hamdan accoglie i visitatori in un’ampia sala, invitandoli a sedersi su uno dei grandi sacchi di iuta collocati per terra, davanti a un’enorme tela cinematografica inclinata quasi a cadere sulle teste degli astanti. Sulla tela, che è cerata come quelle tipiche delle strutture militari, è proiettato a ciclo continuo il video delle incursioni israeliane di droni, F-35, elicotteri, missili e dirigibili che attraversano il territorio libanese impunemente da oltre 15 anni, senza che nessuno all’ONU (nonostante le continue segnalazioni) faccia nulla per impedirle o almeno regolamentarle.

Una riflessione sulla dimensione sociopolitica del suono

L’opera d’arte, coniugando video ad alta risoluzione e suono altrettanto definito, impone allo spettatore l’ascolto degli identici rumori che martirizzano un qualunque cittadino libanese, grazie alla presenza stereofonica di molte casse stereo che riproducono fedelmente il transito dei jet israeliani, alle medesime frequenze realmente percepite a Beirut, Tripoli o Baalbek. Con questa ennesima creazione Abu Hamdan prosegue la sua riflessione sulla dimensione sociopolitica del suono, inteso come agente patogeno suscettibile di alterare la salute: grazie alle sue lunghe e rigorose indagini, l’artista continua a specializzarsi nella raccolta di documenti, registrazioni e fonti d’archivio (competenze acquisite nella sua originaria professione di fonico forense) per poi assemblare installazioni contemporanee che denunciano uno specifico malessere e al contempo forniscono le prove di crimini e ingiustizie troppo spesso perpetrate a danno di individui e comunità che non hanno rappresentanza in contesti legali ufficiali.

La bomba lunga e la violenza atmosferica denunciata da Abu Hamdan

In questo specifico caso, l’indagine di “Air Pressure” si concentra sullo spazio aereo libanese e sulla condizione di onnipresente e intenso inquinamento acustico che influenza e distorce la vita del popolo libanese, definita dall’artista “violenza atmosferica”. Il cielo del Libano è quotidianamente invaso dai voli militari di una potenza straniera che esercita così un’occupazione materiale del cielo e una costante pressione dall’alto, con frequenze acustiche fisicamente e psicologicamente aggressive. I sorvoli sono tutti effettuati in violazione della Risoluzione ONU 1701 del 2006, che pose fine alla Guerra di luglio tra Israele e Libano nel medesimo anno.

Proprio grazie ai documenti depositati all’ONU, che denunciano tali violazioni, Abu Hamdan è riuscito a mappare l’intera traiettoria storica del fenomeno: sono oltre 22.111 i voli non autorizzati di jet, caccia, droni e altri velivoli che stanno di fatto conducendo una protratta guerra sonora. L’artista la chiama “bomba lunga”, un’arma che pur non arrivando mai al suolo, con la sua minaccia estende indefinitamente tutta la sua potenza distruttiva.

«Non senti mai lo sparo che ti uccide». Il concetto di violenza atmosferica

L’opera trasmette in tal modo una narrazione coinvolgente, sensoriale ed efficace del concetto di violenza atmosferica, offrendo a chi se ne lascia coinvolgere l’opportunità di svolgere una riflessione storica e politica sull’impiego del rumore come strumento di espropriazione, condizionamento e controllo. La novità artistica specifica, in termini tecnici, sta nell’applicazione delle pratiche specifiche della perizia fonica forense all’analisi fattuale dei dati che costituiscono poi il core dell’opera d’arte: in questo modo l’artista non trasforma la realtà oggettiva in riproduzione soggettiva, ma eliminando ogni manipolazione dei fatti riesce a creare un prodotto artistico di per sè oggettivo, puro, senza alcuna possibilità di alterazione. La sua installazione vuole smuovere gli animi, azionare i processi valutativi tipici di chi fruisce dell’arte senza però consentire travisamenti o slanci fantastici.

Abu Hamden relaziona su ciò che è, spingendo ad accettare le cose come sono ma volendo comunque innescare il processo di riflessione personale che è il fine ultimo di ogni forma d’arte. Se è vero, come dice l’artista, che «Non senti mai lo sparo che ti uccide», altrettanto vero è che l’arte non deve mai cessare di gridare le verità che qualcuno vorrebbe imbavagliare. E se il futuro dell’arte sarà sempre più incastonato nel ruolo di denuncia, Abu Hamdan ne diverrà precursore e colonna portante.

Come registrare i suoni ambientali

La registrazione dei velivoli appartiene alla categoria delle registrazioni di suoni “in natura”, anche se aeromobili, jet o elicotteri non sono animali o agenti atmosferici: si tratta comunque di suoni naturali, che si riproducono cioè nello spazio naturale e non sono volutamente riprodotti da chi ascolta, ma solo subiti. Le apparecchiature solitamente utilizzate sono i microfoni direzionali, quelli più adatti a registrare suoni provenienti da una determinata direzione e che riescono al contempo a ridurre il più possibile tutto il resto dei rumori ambientali, che costituiscono un “disturbo”, incluso il vento.

Tra quelli più semplici da utilizzare vanno annoverati i piccoli microfoni parabolici: per risultati ottimali, con video, durante la registrazione il microfono va collegato direttamente alla telecamera e la cuffia all’uscita della stessa telecamera. Per riprese prolungate, la telecamera andrebbe fissata ad un cavalletto, lasciando così all’operatore la libertà di orientare solo il microfono verso la sorgente del suono. Per determinare, infine, la pressione acustica del suono registrato, è indispensabile collegare alle macchine audio/video anche un fonometro.

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