
La tela “Atalanta e Ippomene” di Guido Reni descrive il mito di Atalanta, ninfa la cui imbattibile capacità nella corsa fu vinta proprio da Ippomene attraverso uno stratagemma ideato da Afrodite, la dea dell’amore.
Reni (1575-1642), pittore e incisore del classicismo seicentesco, al giorno d’oggi viene ricordato per l’apprezzamento e il valore che acquisiscono le sue opere al di là del tempo. Da bambino fu avviato alla medesima carriera del padre, ovvero quella musicale, finché conobbe Denijs Calvaert, un artista fiammingo, che lo incoraggiò a cimentarsi nelle arti visive, rivelandosi ben presto la sua passione. La carriera artistica si svolse tra Bologna, suo paese originario, e Roma, dove realizzò numerose composizioni. Gli ultimi anni della sua vita furono tormentati dai debiti e dal rimpianto di essere quasi un peso per le persone che lo circondavano e lo amavano.
«Il genio di Guido non era né molto vivace né molto grande; egli non riusciva allo stesso modo in tutti i temi. Siccome aveva più nobiltà, dolcezza e grazia che forza e fierezza, gli si addicevano più degli altri i soggetti devozionali e teneri.» – M. Dargens
La tela “Atalanta e Ippomene” descrive il mito di Atalanta, ninfa la cui imbattibile capacità nella corsa fu vinta proprio da Ippomene attraverso uno stratagemma ideato da Afrodite, la dea dell’amore.
“Atalanta e Ippomene” di Guido Reni. Il mito classico rivive nell’arte
Il mito classico racconta la storia di Atalanta. Il padre, che avrebbe di gran lunga preferito un figlio maschio a lei, come di consuetudine, alla nascita la abbandonò sul monte Pelio. La bimba però riuscì a sopravvivere, grazie ad un’orsa inviata dalla dea Artemide, che la allattò ed allevò finché non venne trovata, e quindi cresciuta, da un gruppo di cacciatori.
Negli anni la fanciulla si distinse nell’arte della caccia e riuscì anche ad essere accolta nel gruppo degli Argonauti – unica donna – per l’intrepido viaggio. La sua fama crebbe al punto che il padre riconobbe in quella giovane la figlia abbandonata anni prima e la riprese con sé. Ma un oracolo aveva predetto ad Atalanta che, una volta sposata, avrebbe perso le sue abilità nella caccia. Così, quando il padre insistette affinché si sposasse, promise che avrebbe accettato solo il giorno in cui avrebbe perso una gara di corsa, ben consapevole di essere imbattibile.
La posta in gioco era altissima, perché ciascun pretendente che non ne fosse uscito vincitore sarebbe stato ucciso. Come previsto, nessuno riuscì a batterla. Un giorno si propose, però, un giovane profondamente innamorato. Il ragazzo, di nome Ippomene, chiese aiuto alla dea dell’amore per riuscire nell’ardua impresa. Afrodite gli porse tre mele d’oro tratte dal Giardino delle Esperidi. Il concorrente in gara avrebbe dovuto furbamente lasciarle cadere, in questo modo Atalanta si sarebbe fermata a raccoglierle e lui avrebbe potuto guadagnare terreno prezioso. Lo stratagemma della dea, funzionò come sempre e per la prima volta la fanciulla venne battuta in questa competizione e data in sposa.
La trasposizione su tela
“Atalanta e Ippomene” di Guido Reni presenta i due personaggi avvolti in una composizione delicata e armonica. I corpi statuari sono modellati dalla luce e ricoperti da veli trasparenti che ne coprono le nudità. L’incarnato pallido e roseo è fortemente messo in risalto dal contrasto che si crea con il paesaggio notturno in cui sono collocate le figure, tanto che i colori del cielo giungono quasi a fondersi con le tinte del terreno. Sono rappresentati nell’atto in cui Atalanta coglie la mela e Ippomene guadagna il vantaggio nella corsa. Entrambi con un solo piede d’appoggio e con le braccia sinistre ripiegate verso il corpo. Pur isolando e congelando questo singolo momento del mito, i corpi non perdono la sinuosità nei movimenti, che richiamano le pose tese della danza classica e che li iscrivono in una particolare composizione geometrica molto affine allo stile barocco.