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“Burning” di Lee Chang-dong, la bruciante solitudine dell’umanità

By Lidia Fiore
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Burning di Lee Chang-don

Un film che brucia l’anima. “Burning” di Lee Chang-dong è profondamente legato al fuoco. Nonostante nel corso della pellicola si vedano ben poche cose bruciare – una serra nella seconda metà del film e un’automobile nelle ultime scene – non si può certo dire che il fuoco non sia uno degli elementi preponderanti del film.

Il fuoco di ‘Burning’ di Lee Chang-dong brucia ancora

Il fuoco è nei sentimenti dei protagonisti, che si infiammano d’amore, gelosia o rabbia. Oppure è nelle frasi criptiche di Ben (Steven Yeun) quando ammette candidamente di essere un piromane seriale. Oppure nella suggestiva fotografia, tutta costruita sui toni del blu – simile alla fiamma di un fornello – del viola – come il tramonto che si spegne nel buio della sera – e del rosso, il colore del fuoco per eccellenza.

«Nell’infinito orizzonte sabbioso arriva il tramonto. All’inizio è arancione, poi rosso sangue, poi viola, fino a diventare blu scuro. Nel frattempo si fa buio e il tramonto scompare.» – Shin Hae-mi

Tecnicamente ineccepibile, “Burning” è un film che fa del montaggio uno dei suoi punti di forza. I frequenti piani sequenza e le inquadrature lunghe conferiscono alla narrazione un ritmo lento che rimarrà tale fino alla fine, dotando la narrazione di un inaspettato pathos. Tuttavia, il ritmo lento non è indice di noia. Ben presto nella narrazione si inserisce la componente thriller, strisciante e insidiosa. Come un oscuro presagio vengono sparsi vari indizi atti a costruire un’atmosfera tesa e inquietante.

‘Burning’ racconta una storia d’amore e solitudine

Sebbene le componenti predominanti siano thriller e drammatiche, anche il sentimento amoroso trova il suo spazio all’interno di “Burning”. Lee Jong-su (Yoo Ah-in) si imbatte per caso nella sua amica d’infanzia Shin Hae-mi (Jeon Jong-seo). Il loro incontro sarà il motore scatenante della narrazione e sarà determinante nella vita dei protagonisti, in particolare Jong-su. Tuttavia l’amore raccontato dal film non si limita puramente all’aspetto romantico. In “Burning” c’è posto anche per il narcisismo e la mania del controllo. In una scena inquietante e incisiva allo stesso tempo, si vede Ben truccare e pettinare la sua fidanzata di modo da renderla perfettamente aderente alle sue aspettative. Il controllo esercitato da Ben sulla sua ragazza spinge inevitabilmente a riflettere sui pericoli dell’avere un legame con un soggetto problematico e completamente anaffettivo.

«Tutti erano venuti in gruppo tranne me. Stare in quel posto mi faceva sentire sola. Perché sono andata fino a lì, tutta sola?» – Shin Hae-mi

Anche la solitudine gioca un ruolo importante all’interno del film. I tre protagonisti della vicenda sono senz’altro accomunati da questo sentimento. Hae-mi è stata abbandonata dalla sua famiglia a causa dei suoi problemi economici e non ha amici. È alla continua ricerca del senso della vita e si spingerà fino in Africa pur di scoprire il grande mistero dell’esistenza umana. Nella scena definita dallo stesso regista come fondamentale nel film, Hae-mi danza al tramonto riproducendo i passi osservati presso la tribù dei boscimani. La melodia jazz scelta come sottofondo alla sequenza mostra perfettamente la straziante malinconia provata dal personaggio.

Anche i due protagonisti maschili, Ben e Jong-su, non sono immuni alla solitudine. Nonostante sembri un uomo vincente, destinato ad essere rispettato ed invidiato, Ben è in realtà molto solo. A causa della sua psicopatia sembra mostrare indifferenza verso chiunque non sia lui stesso: trova le persone che piangono divertenti e spesso guarda Hae-mi con annoiata arroganza. Al contrario, Jong-su è disposto a spendere una ragguardevole somma di denaro pur di ripagare il debito contratto da sua madre e ritenersi così degno del suo affetto.

Il ruolo predominante della letteratura

In “Burning” letteratura e cinema si intrecciano continuamente dando vita ad un’unione creativa ed originale. La sceneggiatura di “Burning” deriva dal racconto breve “Fienile in fiamme” di Haruki Murakami. Il regista Lee Chang-dong ha detto di Jong-su che è «un personaggio di Faulkner in un mondo costruito da Murakami». Anche William Faulkner è un autore chiave all’interno della narrazione. Non solo la caratterizzazione di Jong-su è ispirata dai personaggi di Faulkner, ma lo stesso protagonista rivela di ammirare lo scrittore americano e di rispecchiarsi nelle sue opere.

«Quando leggo i romanzi di Faulkner, sembra come di leggere la mia storia.» – Lee Jong-su

Lee Chang-dong paragona l’animo umano ad una serra

«A volte brucio serre. È il mio hobby. Scelgo una serra abbandonata nei campi e la brucio. Una volta ogni due mesi. Penso che sia il ritmo giusto.» – Ben

“Burning” di Lee Chang-dong è indubbiamente un film che parla tramite metafore. Sebbene certi passaggi sembrino particolarmente contorti ed incomprensibili, dopo un’attenta osservazione si può comprenderne perfettamente il messaggio nascosto. L’esempio più eclatante è rappresentato dalla dichiarazione di Ben a proposito del suo insolito hobby. Quando Ben rivela di voler incendiare una serra molto vicina a Jong-su, sta velatamente confessando la sua intenzione di uccidere Hae-mi.

Secondo l’idea del regista, ogni essere umano è una serra ed è compito del proprietario prendersene cura e far sì che fiorisca. Ben, dall’alto della sua supponenza vagamente classista, si arroga il diritto di decidere quale essere umano non meriti di vivere. Il suo modus operandi è spaventosamente inquietante. In preda ad un delirio di onnipotenza, Ben sceglie le sue vittime fra le ragazze socialmente disagiate e, dopo averle conquistate, le uccide. Hae-mi è la serra che Ben ha deciso di incendiare, ma Jong-su è troppo distratto per accorgersene. L’incapacità di Jong-su di interpretare le metafore di Ben innescherà una tremenda escalation che condurrà ad un inevitabile tragico finale.

  • Burning di Lee Chang-dong
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cinema orientale
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Gli horror di Jordan Peele. “Scappa” e “Noi” svelano la società

By Fatima Fasano
Gli horror di Jordan Peele

Jordan Peele, nato a New York City nel 1979, è un cineasta conosciuto soprattutto per la sketch comedy “Key & Peele”. Quasi paradossale, considerando che si è fatto strada nel campo internazionale grazie alle sue sceneggiature originali di genere horror. “Scappa – Get out” è stato il suo primo film da regista, sceneggiatore e produttore che gli ha regalato diversi premi. Tra questi, un Oscar per la miglior sceneggiatura originale e un Gotham Independent Film Awards per il miglior regista rivelazione. Inoltre, il NBR ha premiato Jordan Peele come miglior regista esordiente e insieme all’AFI ha inserito la sua prima pellicola nei migliori dieci film del 2017. Il secondo film, “Noi”, seppur in maniera differente, affronta come il lungometraggio precedente delle tematiche sociali inserite in un’ambientazione inquietante e profonda, in cui si nascondono la psicologia e la paura. Gli horror di Jordan Peele sono accompagnati sempre dalle colonne sonore di Michael Abels. 

«Perciò, così parla l’Eterno: Ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.» – Jeremiah 11:11 

Gli horror di Jordan Peele. La fotografia policromatica dal blu al rosso

“Scappa – Get out” e “Noi” presentano delle caratteristiche simili nell’ambito tecnico. Entrambi i lungometraggi, girati con un aspect ratio di 1:2,39, presentano una fotografia policromatica in cui, però, c’è un colore che prevale sugli altri quasi in contrasto. In “Scappa – Get out” si ha una prevalenza di blu, particolarmente evidente nella luce che illumina il volto di Chris (Daniel Kaluuya) quando affonda nel mondo sommerso. La scelta di questo colore sottolinea la profondità della sua mente che è come un abisso in cui ci si può perdere e da cui si può rivenire soltanto attraverso un flash di luce.  

«Potrai vedere e sentire ciò che il tuo corpo sta facendo, ma la tua esistenza sarà quella di un passeggero, uno spettatore.» – Jim Hudson 

Simbolo del desiderio di un cambiamento sovversivo, dell’azione che può diventare aggressiva, il rosso è il colore che prevale in “Noi”. Non è un caso che le tute dei doppelgänger siano proprio di questo colore e che la loro portavoce si chiami Red (Lupita Nyong’o).  

I piani di ripresa sono diversificati, ma ha particolare importanza il primo piano. L’inquadratura, infatti, deve mostrare le espressioni dei personaggi per capire attraverso gli sguardi il loro stato d’animo e in alcuni casi la loro vera identità. A tal proposito è fondamentale concentrarsi anche sui sorrisi che, sia in “Scappa – Get out” che in “Noi”, sono piuttosto impressionanti e danno allo spettatore una particolare sensazione di inquietudine. Persino il sorriso della piccola Adelaide (Madison Curry) risulta ambiguo e soltanto nel finale se ne comprende il motivo. 

I falsi sorrisi in “Scappa – Get out” 

Oltre ai sorrisi, sono diversi gli elementi che mascherano la verità. Una verità misteriosa e oscura, alla quale è difficile credere. Ci si rende conto che c’è qualcosa che non va ma non si riesce a capire cosa. In “Scappa – Get out”, ad esempio, è evidente il modo meccanico con cui si muove Walter (Marcus Henderson), o l’atteggiamento sottomesso ma contorto di Georgina (Betty Gabriel). Sembrano dei burattini senza fili. L’interesse di Missy Armitage (Catherine Keener) verso la morte della madre di Chris sembra una cosa normale, ma nasconde qualcosa di più profondo. Perché? Quello è il punto debole del ragazzo e infatti, sin dalla prima volta in cui ne parlano, si sente il tintinnio del cucchiaino nel bicchiere che l’ipnoterapista ripeterà successivamente proprio per far cadere Chris nel mondo sommerso. 

«La forza non importa, è tutto nella mente.» – Jeremy Armitage 

Una delle scene più particolari è quella in cui Chris vede un unico ragazzo nero tra i bianchi invitati a casa Armitage. Si presenta come Logan (Lakeith Stanfield) ma è alquanto strano. Il vestito che indossa è all’antica e lui sembra quasi incantato nei movimenti e nel modo di parlare. Quando si trova vicino ad un gruppo di invitati, Logan gira su sé stesso come a far vedere l’abito indossato. Tuttavia, non è l’abito all’antica che mostra, ma il suo nuovo corpo. 

Specchi e riflessi in “Noi – Us”

In “Noi” è più difficile cogliere gli indizi ma, se si è attenti, è possibile capire la vera identità di Adelaide e quella di Red molto presto. Al Luna Park sulla spiaggia, la piccola Adelaide entra nella stanza degli specchi al cui ingresso c’è scritto “find yourself”. Per trovare la via d’uscita, la bambina inizia a fischiare, ma l’unica cosa che troverà è proprio un’altra versione di sé, ciò che inizialmente sembra solo un’immagine allo specchio. Quando l’ormai adulta Adelaide racconta l’evento al marito, lei è inquadrata attraverso il vetro della finestra, perciò viene visto il suo riflesso. Che vuol dire? La risposta è nell’arrivo di Red, che in diverse occasioni fischia. Ciò rende subito chiaro che Red è in realtà la piccola Adelaide che si è persa nella stanza degli specchi, mentre quella che lo spettatore conosce come l’adulta Adelaide è la bambina incontrata lì. 

«Chissà come sarà stato crescere guardando il cielo.» – Red 

Qui, di particolare intensità sono le sequenze che mostrano la differenza del mondo di sopra e il mondo sotterraneo, quello dei tunnel, in cui vivono i cloni degli uomini. La scena della danza scandita dalle note di “Pas de deux”, inoltre, sottolinea il contrasto tra le protagoniste, tra i mondi in cui hanno vissuto e tra il passato e il presente.  

Gli horror di Jordan Peele. La doppia faccia della società

In entrambi i film al senso di angoscia si unisce l’ironia creando un nuovo modo di fare horror che rende le vicende più verosimili. Dietro una trama che suscita turbamento e ansia, si nascondono delle tematiche per cui entrambi i film possono essere considerati delle denunce sociali. In “Scappa – Get out” di Jordan Peele si ha un’America altolocata dietro la quale si cela la falsità. Sembra quasi esagerato l’interesse degli invitati o il modo in cui la famiglia di Rose (Allison Williams) si mostra accogliente e apprensiva verso Chris. Questa tolleranza enfatizzata occulta la discriminazione razziale. I personaggi hanno tutti una doppia faccia, si mostrano affabili e sorridenti: atteggiamento che serve soltanto a raggiungere i propri scopi. 

La doppiezza degli Stati Uniti viene resa evidente nella seconda pellicola – “Noi – Us” – ossia U.S. – attraverso i cloni. Si ha proprio una divisione tra la vita in superficie, dove deve stare la facciata migliore della società, e quella nei tunnel sotterranei o nel mondo sommerso, dove possono vivere gli scarti, come dei conigli in gabbia. “Hands Across America” – un evento degli anni ‘80 contro la fame e la povertà – è utilizzato da Red per ricercare la libertà che ha perso. Difatti, quando gli incatenati salgono in superficie, liberi da quel mondo cupo e tetro, si tengono per mano ricreando quella catena e intanto i conigli sono liberi nelle stanze dei tunnel. Nonostante ciò, gli incatenati sono esseri che non riescono a parlare, sono ambigui, dissimili. Anche in questo caso c’è discriminazione, la paura del diverso. Lo spettatore teme Red e la sua famiglia, ma non Adelaide, poiché identifica quest’ultima come sua simile. 

Tramite la paura, gli horror di Jordan Peele rivelano la società per ciò che è realmente ed invitano il pubblico a risvegliarsi dall’inganno di un mondo in cui prevale l’esteriorità sull’essenza.  

  • Gli horror di Jordan Peele. Scappa - Get Out
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Ferro 3 La casa vuota di Kim Ki-duk. Il bello di parlare in silenzio

By Lidia Fiore
Ferro 3 - La casa vuota, film di Kim Ki-duk

Un gesto vale più di mille parole. Sembra un’espressione banale e stantia, eppure questa frase descrive perfettamente il film “Ferro 3 – La casa vuota” di Kim Ki-duk. L’assenza di parola è infatti uno dei protagonisti principali della pellicola e sorprendentemente rappresenta un punto di forza, anziché una debolezza.

Le poche frasi pronunciate provengono da personaggi negativi o che non aggiungono alcun valore sostanziale alla narrazione. Invece i protagonisti rimangono quasi sempre in silenzio. Ne scopriamo i nomi solo nella seconda parte del film e risultano comunque i personaggi meglio caratterizzati e più interessanti. In questo modo emerge in tutta la sua potenza l’abilità registica di Kim Ki-duk, che riporta in modo realistico e sconvolgente la drammaticità della solitudine umana, avvalendosi unicamente delle immagini e della forza espressiva del cast.

Il mistero dietro al titolo ‘Ferro 3 – La casa vuota’ di Kim Ki-duk

Ad un primo sguardo il titolo “Ferro 3 – La casa vuota” risulterà sicuramente criptico e poco incline ad interpretazioni. Solitamente il titolo dà qualche informazione, anche sommaria, sul film che si andrà a vedere o sul suo genere di appartenenza. Sarà un horror? O un film drammatico? Magari un’allegra commedia, perché no?

Difficile indovinarlo con queste poche parole, che sembrano addirittura messe insieme in modo del tutto casuale. In realtà, il mistero è facilmente svelato dopo la visione del film. In Ferro 3 di Kim Ki-duk la casa vuota rappresenta da un lato la condizione di solitudine e infelicità che accomuna tutti i personaggi – anche quelli negativi vivono una vita miserabile allo stesso modo dei protagonisti -, mentre dall’altro descrive lo stile di vita del protagonista maschile della pellicola, che vagabonda da una casa vuota all’altra.

Tae-suk entra illegalmente nelle abitazioni, dove non è stato rimosso il volantino da lui precedentemente lasciato durante il suo turno di lavoro, e ci vive per un giorno come se fosse realmente casa sua. Non ruba nulla, come i più si aspetterebbero, ma fa il bucato, innaffia le piante e aggiusta gli oggetti rotti. Per un giorno intero Tae-suk riempie il vuoto di quelle case prendendosene cura come se fossero sue e nell’atto di riparare orologi, radioline e bilance si intravede un barlume di positività. Se le case vuote rappresentano le persone abbandonate, allora gli oggetti riparati simboleggiano la possibilità per ognuna di loro di “ritornare a funzionare”, qualora qualcuno di buona volontà decida di prendersene cura.

Per quanto riguarda invece la prima parte del titolo, Ferro 3 rappresenta una tipologia di mazza da golf. Sebbene ricorra spesso all’interno della pellicola, in realtà sul campo non viene molto utilizzata e resta abbandonata nella sacca da gioco.

Solitudine e abbandono secondo Kim Ki-duk

Tae-suk è quello che si potrebbe definire un emarginato sociale. Sembra non avere una fissa dimora, una famiglia a sostenerlo o un qualsiasi tipo di legame affettivo e, soprattutto, non ha un lavoro “socialmente accettabile” in Corea. È infatti qui che viene ambientata la pellicola, una realtà in cui esiste una precisa gerarchia sociale, per la quale i soggetti come Tae-suk, un semplice addetto al volantinaggio, vengono impietosamente isolati. La solitudine, però, non conosce barriere. Così come colpisce Tae-suk, confinandolo ai margini della società come un fuoricasta, si abbatte anche su Sun-hwa, che dovrebbe essere privilegiata essendo benestante, giovane e di bell’aspetto.

L’unico personaggio con il quale interagisce, oltre a Tae-suk, è un marito violento e dispotico che cerca di controllare ogni aspetto della sua vita, perfino il suo abbigliamento. È proprio in quest’ottica di isolamento e soprusi che si inserisce l’incontro tra i due protagonisti. Sono entrambi soli, emarginati e con poche speranze nell’avvenire. Come due case vuote, lasciate all’abbandono da dei proprietari incuranti, Tae-suk e Sun-hwa vagano nel mondo alla ricerca di qualcosa che dia un senso alle proprie vite, trovano quello che cercavano l’uno nell’altra, imparando a comunicare i propri sentimenti nel più assoluto silenzio.

Ancora una volta con Ferro 3 di Kim Ki-duk emerge il talento del regista nel rendere evidente il profondo disagio vissuto dai due protagonisti prima del loro incontro e la progressiva evoluzione dei loro sentimenti senza ricorrere alla parola. Insomma, Kim Ki-duk con questo film suggerisce che, a volte, le cose migliori possono essere espresse restando semplicemente in silenzio.

  • Ferro 3 - La casa vuota
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  • Ferro 3 - La casa vuota
1 Comment
    George says:
    Giugno 17th 2020, 8:55 am

    Lidia Fiore, complimenti per l’ottima recensione di Burning, molto sensibile all osservazione ed alla psicologia del film. Profonda osservatrice.

    Grazie, cari saluti. 🌹🌹🌹

    George

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