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Chi è Joaquin Phoenix? Tutta la verità dietro l’uomo dai mille volti

By Lidia Fiore
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Joaquin Phoenix

Otto minuti di standing ovation al Festival del cinema di Venezia. Per Joaquin Phoenix rappresenta indubbiamente l’apice di una carriera già costellata di numerosi successi. La sua interpretazione nel film “Joker” è la più chiacchierata e attesa dell’anno e si vocifera che potrebbe addirittura ottenere una nomination agli Oscar. Sarebbe la quarta per Phoenix. Da dove deriva il suo successo? Cosa l’ha portato a diventare uno dei migliori attori della contemporaneità?

Ebbene, le riposte sono molteplici. Si potrebbe dire che il merito è della maniacale cura con cui l’attore sceglie i suoi ruoli e le produzioni a cui prendere parte. Oppure che il segreto si nasconde nella profonda abnegazione con la quale Joaquin Phoenix si dedica all’interpretazione dei suoi personaggi. In realtà non si può nemmeno negare che la sua famiglia e la sua vita privata abbiano giocato un ruolo fondamentale nella costruzione della carriera dell’attore.

«Quando avevo quindici o sedici anni, mio fratello River tornò a casa con una VHS di Toro Scatenato. Mi fece sedere e me la fece guardare. E così anche il giorno dopo. Poi mi disse che dovevo ricominciare a recitare. Non me l’ha chiesto, me l’ha detto. E sono in debito con lui perché la recitazione mi ha dato questa vita così incredibile» – Joaquin Phoenix

Un’infanzia  fra luci e ombre

La famiglia di Joaquin Bottom – verrà cambiato il cognome solo in un secondo momento – ha indubbiamente influito sul processo di formazione personale e artistica dell’attore. Joaquin nasce nel 1974. Già la scelta del suo nome fu atipica. Nato in una famiglia hippie, tutti i fratelli aveva ricevuto nomi legati al mondo della natura e quello stile di vita – River, Rain, Liberty e Summer -. Joaquin fu l’unico a fare eccezione, motivo per cui decise di farsi chiamare Leaf – foglia – per gran parte della sua vita.

Nei primi anni la sua famiglia si era stabilita all’interno della setta religiosa dei “Bambini di Dio” in Sud America, dopo aver viaggiato a lungo fra le diverse comuni di hippies degli USA. La permanenza nella comunità ha segnato indelebilmente l’infanzia di Joaquin che ha più volte assistito alle molestie perpetrate dagli adulti della setta verso i bambini. In particolare suo fratello River perse la verginità a 4 anni.

Il cambiamento da Bottom a Phoenix

In seguito a quest’esperienza traumatica la famiglia Bottom abbandonò la comunità, fuggendo negli Stati Uniti. Giunti in Florida i Bottom decisero di ripartire da zero e cambiarono il proprio cognome in Phoenix, auspicando ad una rinascita come quella della leggendaria Araba Felice. Vissero a lungo nell’indigenza, arrivando addirittura a dormire in macchina, perché impossibilitati ad affittare un appartamento.

«Eravamo dei bambini molto poveri, puri ed ingenui. I bambini più ricchi ci chiamavano in molti modi, ma non ce ne siamo mai preoccupati perché non sapevamo il significato di quelle parole» – River Phoenix

La difficile situazione familiare spiega perfettamente la profonda dedizione che Joaquin Phoenix ha sempre dedicato ad ogni suo ruolo, fin dagli esordi. Sebbene le sue prime parti fossero del tutto marginali, Joaquin vi si è sempre cimentato con grande impegno, proprio perché consapevole di essere in debito col mondo dello spettacolo che, accogliendolo, aveva contribuito a risollevare la condizione economica della sua famiglia.

La morte di River Phoenix

Per preservare la sua privacy, all’inizio della carriera Joaquin Phoenix è stato costretto più volte a prendere le distanze dal mondo dello spettacolo, in una sorta di esilio autoimposto necessario ad elaborare nella più completa riservatezza le tragedie che hanno colpito la sua famiglia. L’esempio più eclatante è di certo rappresentato dalla morte del fratello River.

River Phoenix era un brillante attore, giovane promessa di Hollywood, che in pochi film riuscì a conquistare pubblico e critica. L’angelo ribelle – come venne definito – aveva talento e bellezza da vendere. Viene ancora oggi ricordato soprattutto per i ruoli di Chris Chambers in “Stand by me” e Mike Waters in “Belli e dannati” di Gus Van Sant. Proprio quest’ultimo film gli valse la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia, nonostante i suoi agenti non volessero farlo recitare per non “sporcare” la sua immagine con un ruolo tanto controverso. Ma l’amico Keanu Reeves lo raggiunse in motocicletta, attraversando gli Stati Uniti solo per fargli leggere il copione e convincerlo!

Eppure la notte tra il 30 e il 31 ottobre 1993, la vita di River fu stroncata. Quella sera Joaquin, River e la sua fidanzata erano al Viper Room. Tra gli ospiti c’erano anche dei giovanissimi Johnny Depp, Leonardo DiCaprio e Christina Applegate. Nonostante il tragico incidente, la stampa non mancò di intromettersi nella vita privata della famiglia rendendo pubblica la telefonata di Joaquin al 911. L’episodio lasciò l’artista così sconvolto da portarlo ad abbandonare la sua carriera, che non recupererà prima del 1994, anno in cui reciterà in “Da morire” di Gus Van Sant – lo stesso che aveva portato alla ribalta precedentemente il fratello River -. Questo film rappresenterà per Joaquin un punto di svolta, segnando il passaggio da ruoli minori in produzioni modeste a ruoli centrali in produzioni sempre più importanti.

Joaquin Phoenix e il suo stravagante metodo di recitazione

Joaquin Phoenix è certamente noto per il suo inusuale approccio alla recitazione, che lo ha spesso portato a sottoporsi a un grande stress sia fisico che emotivo. Il segreto della splendida resa dei suoi personaggi è nell’immedesimazione. L’attore sceglie con cura i suoi ruoli – lasciandosi inevitabilmente condizionare dalle vicende della sua vita privata – e li studia nel minimo dettaglio, arrivando alla piena comprensione della caratterizzazione psicologica dei suoi personaggi.

Particolarmente nota è la sua interpretazione in “Squadra 49” dove, per prepararsi per la parte, Joaquin arrivò ad iscriversi ad all’accademia dei pompieri in Baltimora ottenendo anche il brevetto. La pellicola riscosse un grande successo fra i vigili del fuoco che trovarono Phoenix perfettamente credibile. Per il biopic su Johnny Cash “Walk the line – Quando l’amore brucia l’anima” imparò a suonare la chitarra e frequentò un boot-camp rock ‘n’ roll per poter diventare baritono e fornire un’imitazione perfetta della voce del cantante. Per non uscire dal personaggio, accettava di parlare solo con chi si fosse rivolto a lui chiamandolo J.R., ovvero il vero nome di Johnny Cash.

I ruoli più discussi

Queste sono solo alcune delle tante stravaganze che caratterizzano Joaquin come attore e che lo rendono un professionista a tutto tondo. È arrivato anche a trasformare radicalmente il suo corpo in più di un’occasione. Per interpretare Freddie Quell in “The Master”, chiese ad un dentista di farsi immobilizzare la mascella con degli elastici, per farla restare ferma mentre recitava. Invece per calarsi nel ruolo di Gesù in “Maria Maddalena”, seguì una dieta di sole 300 calorie. L’idea di Joaquin Phoenix era quella di rappresentare Gesù come un uomo emaciato, dando particolare risalto al suo lato umano, piuttosto che quello divino. Ciò che rende uniche le interpretazioni di Joaquin Phoenix è che non si limita semplicemente a fingere di essere il personaggio, bensì diventa il personaggio stesso. Ovviamente “Joker” non fa eccezione.

L’immedesimazione in Joker va oltre ogni immaginazione

Per prepararsi alla parte non si è limitato a perdere 24 chili, ma lo ha fatto anche in un breve arco di tempo, per coinvolgere anche la sua mente nel processo. Ha affermato che perdere peso in poco tempo è stato utile per entrare nella psicologia del personaggio, da lui immaginato come fragile e psicologicamente instabile.

Inoltre durante la realizzazione del film non ha utilizzato nessuno stuntman per le scene d’azione, scegliendo di correre un grande rischio, soprattutto nella scena in cui il suo Arthur Fleck viene investito da un taxi. Per quanto riguarda la caratteristica risata del Joker, ha dichiarato di essersi ispirato ai pazienti psichiatrici affetti da risata patologica e di aver lavorato duramente per rendere la sua risata triste e malinconica, piuttosto che gioiosa. Sarà sufficiente ad ottenere la candidatura agli Oscar? Non se ne ha ancora la certezza, ma indubbiamente sarà una delle migliori performance dell’attore, destinata a rimanere a lungo impressa nella storia del cinema.

 «Non c’è un metodo unico. Dipende dalla scena» – Joaquin Phoenix

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“Miseria e Nobiltà” di Mario Mattoli. Una realtà tragicomica

By Fatima Fasano
"Miseria e Nobiltà" di Mario Mattoli

Con la volontà di analizzare il cinema napoletano e la sua teatralità, il Napoli Teatro Festival ha organizzato le proiezioni di diverse pellicole che vanno dagli anni ‘40 ai ‘60. Nel suggestivo Cortile delle Carrozze del Palazzo Reale, sotto le stelle, si prende visione di “Miseria e Nobiltà”. Una delle tante collaborazioni tra Totò e il regista Mario Mattoli che mette in scena l’omonima opera teatrale del commediografo Eduardo Scarpetta, in una versione ridotta e dialogata da Ruggero Maccari. È interessante tener presente che il pubblico si trova in un palazzo della nobiltà – similmente ai protagonisti nella casa del cuoco benestante – e a pochi passi dalla postazione di lavoro di Felice e Pasquale, vicino al Teatro San Carlo. 

“Miseria e Nobiltà” di Mario Mattoli. La commedia della verità

«In una casa povera come la nostra, ti permetti il lusso di svegliarti con l’appetito?» – Pasquale 

Accompagnata dalla colonna sonora di Pippo Barzizza, “Miseria e Nobiltà” di Mario Mattoli mette in scena la realtà di fine ‘800 in una nota tragicomica. Felice Sciosciammocca (Totò), uno scrivano, e Pasquale (Enzo Turco), un fotografo, condividono un’abitazione dall’aria malridotta e povera. Insieme alle rispettive famiglie non mangiano da giorni. Il lavoro non funziona e spesso sono costretti a lasciare coperte e abiti in pegno. Sin da subito è evidente la situazione di miseria che però viene presa con scioltezza e spontaneità. Si pensi alla sequenza che vede l’entrata del marchesino Eugenio Favetti (Franco Pastorino) e la ricerca della “sedia migliore”, o a quella in cui un cuoco porta da mangiare in casa e tutti pensano sia un’allucinazione.  

«Qua si mangia pane e veleno!» – Pasquale 
«No Pasquà, solo veleno!» – Felice 

La serietà viene però mantenuta in situazioni comuni come il pagamento della pigione. Il padrone di casa don Gioacchino (Enzo Petito) arriva in scena per riscuotere il pagamento. Sottolinea che se non viene pagato, questa volta, arriverà ad una sentenza e al sequestro dei beni della famiglia. Quando però mette gli occhiali e si guarda intorno, si rende conto che non può sequestrare niente perché gli inquilini sono nullatenenti. Non hanno più vestiti, neanche quelli delle feste. Difatti alla richiesta del marchesino di indossare l’abito migliore, Felice gli mostra quello che indossa, che indosserà a Pasqua, Capodanno e Ferragosto. 

Un’opera teatrale

Per celebrare l’opera di Eduardo Scarpetta, la pellicola si apre in teatro dove il programma presenta i titoli di testa. La bravura attoriale si evince non solo dalla voce e l’intonazione degli interpreti, ma dalle espressioni e in particolar modo dai movimenti del corpo e dalla gestualità delle mani. In effetti, seppure le inquadrature vanno dalla figura intera al mezzo primo piano, vengono sempre mostrate le mani che accompagnano il discorso. Inoltre i personaggi non stanno mai di spalle, poiché si tiene in considerazione la presenza del pubblico. Tutto è perciò reso in modo particolarmente teatrale ed enfatico e, allo stesso tempo, autentico e genuino. 

Nonostante le tematiche profonde, le scene sono sempre esilaranti e mantengono una costante comicità grazie alle sagome del cinema napoletano. Si pensi alla sequenza in cui, per scappare da don Gioacchino, Felice e Pasquale entrano in casa della signorina piemontese (Franca Faldini) e con il piccolo Peppeniello (Franco Melidoni) si contendono una fetta di pane, burro e marmellata. Anche la famosa scena degli spaghetti è finalizzata a sottolineare la fame. Invece la difficoltà del lavoro è ben chiara negli episodi della scrittura della lettera al contadino e della fotografia ai neosposi. I dialoghi sono spassosi persino nei litigi tra Luisella (Dolores Palumbo) e Concetta (Liana Billi). 

«Hai fame? E lascia crescere, è segno di salute.» – Pasquale 

Come l’inizio, anche la chiusura si svolge in teatro. Alla fine della vicenda, Felice e gli altri personaggi si voltano verso la camera. L’inquadratura si allontana, mostrandoli sul palcoscenico.

«La miseria vera è la falsa nobiltà. […] Torno nella miseria però non mi lamento. Mi basta di sapere che il mio pubblico è contento»

“Miseria e Nobiltà” di Mario Mattoli. Vite contrapposte

La vita dei protagonisti si intreccia e si contrappone a quella del marchesino Eugenio e della ballerina Gemma (Sophia Loren). I giovani innamorati attuano un piano, grazie al quale Felice, Pasquale, Concetta e Pupella (Valeria Moriconi) passano dalla miseria alla nobiltà: devono fingere di essere la famiglia del marchesino. Dalla fotografia di Karl Struss e dalla scenografia di Alberto Boccianti e Piero Filippine è evidente la differenza delle abitazioni e quindi delle classi sociali dei personaggi. La casa del facoltoso cuoco don Gaetano (Gianni Cavalieri) presenta, infatti, una grande entrata, vetrate decorate e marmi. I dipinti ai muri, i lampadari, i tavoli eleganti e le tende sottolineano la sfarzosità del luogo. A differenza del freddo grigiore della casa di Felice e Pasquale, qui prevalgono colori più caldi come il rosa e l’arancione pastello, a rappresentare il calore della dimora. 

La nobiltà nella miseria

La prolungata situazione di disagio spinge i personaggi ad agire con comportamenti all’apparenza discutibili. Quando Peppeniello spiega di aver sporcato di grasso una delle lettere del padre, si accende il nervosismo di Luisella che lo caccia di casa. Dalla debolezza del digiuno, nessuno lo va a cercare. È una bocca in meno da sfamare. Forse è meglio che Peppeniello trovi un altro posto dove stare e magari una vita migliore. 

Malgrado la situazione in cui versano, Felice riesce a dimostrare la sua umiltà. Accolti come parenti del marchesino nell’abitazione del cuoco, Felice pare voglia rubare delle posate. Le prende, ma subito dopo le ripone sul tavolo. In questo piccolo gesto, mostra quindi la sua reale nobiltà. Diversamente Pasquale, sul finale, dimostra di aver sottratto alcune posate. Spinti costantemente da una vita predominata dalle ristrettezze economiche, i coinquilini rappresentano due facce della stessa medaglia. In alcuni casi, la povertà spinge a reagire in modo negativo sugli altri, facendo dimenticare la propria educazione e umanità. In altri, invece, valorizza l’umiltà e la nobiltà d’animo. 

  • "Miseria e Nobiltà" di Mario Mattoli
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  • Totò e Enzo Turco
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  • Totò e Enzo Turco

“Psyco” di Alfred Hitchcock, il Maestro del brivido

By Fatima Fasano
"Psyco" di Alfred Hitchcock

Basato sul romanzo di Robert Bloch – precedentemente pubblicato in Italia con il titolo “Il passato che urla” e riadattato al grande schermo dallo sceneggiatore statunitense Joseph Stefano – “Psyco” di Alfred Hitchcock è una delle sue pellicole di maggior successo, la cui colonna sonora carica di suspense fu composta da Bernard Herrmann. A causa della volontà di evitare sprechi di tempo e di denaro – invero la pellicola fu prodotta con un budget di soli $800.000 e ne guadagnò circa 50 milioni – il regista inglese decise di servirsi della troupe della sua serie antologica “Alfred Hitchcock Presents”, ma nonostante ciò, ancora una volta, il “Maestro del brivido” stava tracciando la storia del cinema.  

Marion: un falso protagonista 

Phoenix, Arizona. Venerdì 11 dicembre, ore 14.43. Una carrellata aerea porta lo spettatore in una camera d’albergo. Qui, colei che viene presentata come la protagonista della pellicola, Marion Crane (Janet Leigh), insieme al suo amante Sam Loomis (John Gavin), introduce due tematiche della pellicola: la sessualità e la morte. La prima è evidenziata dal rapporto dei due innamorati, mentre la seconda dal dialogo degli stessi riguardo la madre dell’una e il padre dell’altro, entrambi defunti. Seguono le vicende di Marion: ruba del denaro, viene controllata da un poliziotto, cambia auto e finisce al Bates Motel. Tutti questi eventi fungono, in realtà, da introduzione al vero protagonista della storia: Norman Bates (Anthony Perkins), proprietario del motel, nel quale si fondono le tematiche.

Il cambio del ruolo principale viene dato dall’imprevedibile, ma ormai storica, scena della doccia: il giovane uccide la donna, eliminando quindi già a metà film la “falsa” protagonista e sostiutendola nel suo ruolo. Da questo momento in poi, è evidente che il pubblico viene solo disorientato dagli elementi iniziali. Si trova di fronte a false piste, accantonate dalla morte di Marion. Di conseguenza, è difficile distinguere tra ciò che è vero, reale e ciò che invece è solo apparenza. 

“Psyco” di Alfred Hitchcock. Il tema del doppio 

«Cominciò a pensare e a parlare come lei. A darle metà della sua vita, per dir così. A volte poteva assumere le due personalità, fare delle conversazioni. Altre volte, invece, la metà madre prendeva il sopravvento, non era mai solo Norman ma era spesso solo la madre. […] Egli faceva semplicemente tutto il possibile per mantenere in lui l’illusione che sua madre fosse viva e quando la realtà diventava troppo invadente, […] lui si travestiva, […] tentava di trasformarsi in sua madre» – Fred Richmond. 

Rifacendosi al discorso dello psichiatra Fred Richmond (Simon Oakland), dopo l’arresto di Norman, è possibile evidenziare alcune sue particolarità. Lui, che nel romanzo è rappresentato come un uomo di mezza età, grasso e calvo, è un esempio di dissociazione della personalità. È diviso in due, un doppio: sé stesso e Norma, sua madre. Lei viene descritta come una donna egocentrica, per la quale Norman provava un amore morboso. Perciò la metà della mente del protagonista che la personifica è spesso più forte di quella di Norman stesso e lo porta a vivere la sessualità come peccato.

Infatti nel momento in cui prova attrazione per Marion, sua madre non può far altro che eliminarla per evitare che Norman perda la sua innocenza.  È chiaro che l’opera cinematografica mette in rilievo degli aspetti della psiche profondi e oscuri, la duplicità tra bene e male, normalità e pazzia, purezza e peccato. Ricorre, infatti, la presenza di specchi che sottolineano la dualità e la consapevolezza di sé, ragion per cui è stata considerata come primo thriller psicoanalitico. 

La dualità del bianco e nero e della psiche umana 

La duplicità è sottolineata anche dalla scelta tecnica del bianco e nero. Un ritorno alla tradizione nel periodo del Technicolor, ma ovviamente non si tratta di una casualità. Oltre ad avere una motivazione estetica, il ricorso al bianco e nero è importante per evidenziare la differenza tra le luci e le ombre, per incrementare il chiaroscuro. È interessante notare come spesso il viso del protagonista venga tagliato a metà: una parte in luce e una parte in ombra, una parte bianca e una nera, ancora una volta a sottolineare la psiche di Norman. Questa differenza ricorre anche in Marion, la quale viene presentata nella sua purezza d’animo finché non ruba del denaro. In effetti nella prima scena, indossa un reggiseno bianco, indice della sua onestà. Invece, quando si trova al Bates Motel e si spoglia, spiata da Norman, ne indossa uno nero che mette in rilievo il suo peccato.  

Il contrasto tra bianco e nero riesce a dare più drammaticità alle scene. Un esempio può essere l’assassinio di Marion: quando viene accoltellata, si vede il suo sangue scorrere nel cerchio dello scarico. Se resa a colori, la scena sarebbe stata considerata più cruda. Si tratta, quindi, anche di un espediente per evitare la censura. In una scena successiva, tale opposizione crea un gioco di luci: quando Lila (Vera Miles) trova la madre di Norman in cantina e ne vede il teschio. Nello spavento urta una lampadina che oscillando proietta una luce dinamica, dando così una dimensione particolarmente tragica all’evento. 

 Le inquadrature… 

Girato con un aspect ratio di 1:1,85, Psyco presenta una certa varietà di inquadrature che vanno dal campo lungo a quello medio, dalla mezza figura al primo piano, fino al dettaglio e alla soggettiva. Una particolarità intrigante è la differenza delle inquadrature tra Marion e Norman. Quest’ultimo viene ripreso dal basso e di profilo, proiettando ombre sulle pareti, per dargli una nota minacciosa. Diversamente, Marion è posta al centro e in posizione frontale, pertanto è illuminata in modo omogeneo.

Un’altra caratteristica da evidenziare è nell’inquadratura delle scale dall’alto presente in due occasioni: la prima è durante l’omicidio dell’investigatore Arbogast (Martin Balsam) e la seconda quando Norman porta in braccio sua madre per nasconderla successivamente in cantina. L’importanza di questo confronto è evidente nel momento in cui si prende in considerazione, ancora una volta, la figura di Norman stesso. Nel primo caso lui ha assunto le sembianze di sua madre, nell’altro ne riproduce solo la voce, in quanto il corpo di Norma è lì presente – al contrario in altre scene si sente solamente la sua voce fuori campo -. Quindi prima c’è una completa unione, un accorpamento, mentre dopo si ha una semi-separazione, uno sdoppiamento.  

…e gli spazi

Le riprese avvennero negli Universal Studios di Hollywood in poco più di due mesi. Anche nello spazio ricreato si nasconde il tema del doppio, reso evidente dalla presenza di linee orizzontali – come quelle che tagliano i nomi nei titoli iniziali – e linee verticali, utilizzate per suscitare sensazioni contrastanti. Un esempio lampante è il contrasto tra la casa di Norman e il motel.

La prima è alta, scura e imponente. Guarda al motel minacciosamente, come una casa stregata. Questa fu ispirata al dipinto di Edward Hopper – nei cui lavori ricorrono malinconia e solitudine – “The House by the Railroad”. Il motel è di forma allungata e quindi posto orizzontalmente. Qui, è di un certo rilievo l’ambiente del salottino dietro l’ufficio del protagonista. In questa stanza sono presenti diversi uccelli la cui presenza si ritrova sia nella città da cui viene Marion – Phoenix quindi “fenice” – sia nel suo cognome Crane ovvero “gru”. Gli uccelli impagliati sottolineano una caratteristica del personaggio: dare la vita a ciò che l’ha persa, ma non in senso materiale quanto in quello mentale.  

“Psyco” di Alfred Hitchcock. L’iconica scena della doccia 

Dallo storyboard di Saul Bass – che rivendicò la sequenza come propria, ma fu smentito dalla troupe e da Hitchcock stesso – e dal montaggio di George Tomasini, la scena della doccia di Psyco ha lasciato il segno nella storia della settima arte. Bisogna dunque sottolineare ciò che è particolarmente evidente all’occhio del pubblico, ma che allo stesso tempo non è così lampante da far sì che se ne renda subito conto.

Marion si trova al Bates Motel e decide di fare una doccia: va in bagno, tira la tenda della vasca, entra e apre l’acqua. Non c’è alcun tipo di sottofondo musicale, si sente solo lo scroscio dell’acqua, finché non si vede un’ombra alle spalle della donna. Appena lei apre la tenda e mostra un coltello pronto a colpire, si sentono note particolarmente acute – Herrmann propose una musica suonata solamente da archi – ed è lampante il contrasto della figura completamente scura rispetto alla luminosità del bagno. 

La vittima viene accoltellata diverse volte, ma nonostante ciò il suo corpo non mostra mai i segni delle ferite. Inoltre, ad ogni stacco dell’inquadratura corrisponde un taglio del coltello. Il regista svizzero Alexandre O. Philippe, nel suo documentario 78/52, mette in rilievo la tecnica della sequenza di circa 3 minuti – ci vollero 7 giorni per girarla -, mentre l’omicidio dura solamente 45 secondi. La rappresentazione grafica prevedeva 35 inquadrature, ma la scena definitiva è formata da 78 inquadrature e 52 cuts, da qui il titolo del documentario. 

Chi è Norman Bates? 

Il carattere di Norman Bates è basato sul serial killer americano Ed Gein. Come Norman, Ed Gein viveva quasi isolato con la sua famiglia ed era particolarmente legato a sua madre. La donna sottolineava la corruzione del mondo e voleva che i figli non avessero rapporti con le donne, tutte da lei descritte negativamente. E Gein ispirò anche altri personaggi letterari e cinematografici, tra cui Buffalo Bill ne “Il silenzio degli Innocenti”, Leatherface in “Non aprite quella porta” e Bloody Face nella serie “American Horror Story: Asylum”.  

  • la casa
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  • "Psyco" di Alfred Hitchcock
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1 Comment
    Anonimo says:
    Ottobre 3rd 2019, 10:05 am

    molto bello scritto bene mi piace sei un genio.

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