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Chi è Joaquin Phoenix? Tutta la verità dietro l’uomo dai mille volti

By Lidia Fiore
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Joaquin Phoenix

Otto minuti di standing ovation al Festival del cinema di Venezia. Per Joaquin Phoenix rappresenta indubbiamente l’apice di una carriera già costellata di numerosi successi. La sua interpretazione nel film “Joker” è la più chiacchierata e attesa dell’anno e si vocifera che potrebbe addirittura ottenere una nomination agli Oscar. Sarebbe la quarta per Phoenix. Da dove deriva il suo successo? Cosa l’ha portato a diventare uno dei migliori attori della contemporaneità?

Ebbene, le riposte sono molteplici. Si potrebbe dire che il merito è della maniacale cura con cui l’attore sceglie i suoi ruoli e le produzioni a cui prendere parte. Oppure che il segreto si nasconde nella profonda abnegazione con la quale Joaquin Phoenix si dedica all’interpretazione dei suoi personaggi. In realtà non si può nemmeno negare che la sua famiglia e la sua vita privata abbiano giocato un ruolo fondamentale nella costruzione della carriera dell’attore.

«Quando avevo quindici o sedici anni, mio fratello River tornò a casa con una VHS di Toro Scatenato. Mi fece sedere e me la fece guardare. E così anche il giorno dopo. Poi mi disse che dovevo ricominciare a recitare. Non me l’ha chiesto, me l’ha detto. E sono in debito con lui perché la recitazione mi ha dato questa vita così incredibile» – Joaquin Phoenix

Un’infanzia  fra luci e ombre

La famiglia di Joaquin Bottom – verrà cambiato il cognome solo in un secondo momento – ha indubbiamente influito sul processo di formazione personale e artistica dell’attore. Joaquin nasce nel 1974. Già la scelta del suo nome fu atipica. Nato in una famiglia hippie, tutti i fratelli aveva ricevuto nomi legati al mondo della natura e quello stile di vita – River, Rain, Liberty e Summer -. Joaquin fu l’unico a fare eccezione, motivo per cui decise di farsi chiamare Leaf – foglia – per gran parte della sua vita.

Nei primi anni la sua famiglia si era stabilita all’interno della setta religiosa dei “Bambini di Dio” in Sud America, dopo aver viaggiato a lungo fra le diverse comuni di hippies degli USA. La permanenza nella comunità ha segnato indelebilmente l’infanzia di Joaquin che ha più volte assistito alle molestie perpetrate dagli adulti della setta verso i bambini. In particolare suo fratello River perse la verginità a 4 anni.

Il cambiamento da Bottom a Phoenix

In seguito a quest’esperienza traumatica la famiglia Bottom abbandonò la comunità, fuggendo negli Stati Uniti. Giunti in Florida i Bottom decisero di ripartire da zero e cambiarono il proprio cognome in Phoenix, auspicando ad una rinascita come quella della leggendaria Araba Felice. Vissero a lungo nell’indigenza, arrivando addirittura a dormire in macchina, perché impossibilitati ad affittare un appartamento.

«Eravamo dei bambini molto poveri, puri ed ingenui. I bambini più ricchi ci chiamavano in molti modi, ma non ce ne siamo mai preoccupati perché non sapevamo il significato di quelle parole» – River Phoenix

La difficile situazione familiare spiega perfettamente la profonda dedizione che Joaquin Phoenix ha sempre dedicato ad ogni suo ruolo, fin dagli esordi. Sebbene le sue prime parti fossero del tutto marginali, Joaquin vi si è sempre cimentato con grande impegno, proprio perché consapevole di essere in debito col mondo dello spettacolo che, accogliendolo, aveva contribuito a risollevare la condizione economica della sua famiglia.

La morte di River Phoenix

Per preservare la sua privacy, all’inizio della carriera Joaquin Phoenix è stato costretto più volte a prendere le distanze dal mondo dello spettacolo, in una sorta di esilio autoimposto necessario ad elaborare nella più completa riservatezza le tragedie che hanno colpito la sua famiglia. L’esempio più eclatante è di certo rappresentato dalla morte del fratello River.

River Phoenix era un brillante attore, giovane promessa di Hollywood, che in pochi film riuscì a conquistare pubblico e critica. L’angelo ribelle – come venne definito – aveva talento e bellezza da vendere. Viene ancora oggi ricordato soprattutto per i ruoli di Chris Chambers in “Stand by me” e Mike Waters in “Belli e dannati” di Gus Van Sant. Proprio quest’ultimo film gli valse la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia, nonostante i suoi agenti non volessero farlo recitare per non “sporcare” la sua immagine con un ruolo tanto controverso. Ma l’amico Keanu Reeves lo raggiunse in motocicletta, attraversando gli Stati Uniti solo per fargli leggere il copione e convincerlo!

Eppure la notte tra il 30 e il 31 ottobre 1993, la vita di River fu stroncata. Quella sera Joaquin, River e la sua fidanzata erano al Viper Room. Tra gli ospiti c’erano anche dei giovanissimi Johnny Depp, Leonardo DiCaprio e Christina Applegate. Nonostante il tragico incidente, la stampa non mancò di intromettersi nella vita privata della famiglia rendendo pubblica la telefonata di Joaquin al 911. L’episodio lasciò l’artista così sconvolto da portarlo ad abbandonare la sua carriera, che non recupererà prima del 1994, anno in cui reciterà in “Da morire” di Gus Van Sant – lo stesso che aveva portato alla ribalta precedentemente il fratello River -. Questo film rappresenterà per Joaquin un punto di svolta, segnando il passaggio da ruoli minori in produzioni modeste a ruoli centrali in produzioni sempre più importanti.

Joaquin Phoenix e il suo stravagante metodo di recitazione

Joaquin Phoenix è certamente noto per il suo inusuale approccio alla recitazione, che lo ha spesso portato a sottoporsi a un grande stress sia fisico che emotivo. Il segreto della splendida resa dei suoi personaggi è nell’immedesimazione. L’attore sceglie con cura i suoi ruoli – lasciandosi inevitabilmente condizionare dalle vicende della sua vita privata – e li studia nel minimo dettaglio, arrivando alla piena comprensione della caratterizzazione psicologica dei suoi personaggi.

Particolarmente nota è la sua interpretazione in “Squadra 49” dove, per prepararsi per la parte, Joaquin arrivò ad iscriversi ad all’accademia dei pompieri in Baltimora ottenendo anche il brevetto. La pellicola riscosse un grande successo fra i vigili del fuoco che trovarono Phoenix perfettamente credibile. Per il biopic su Johnny Cash “Walk the line – Quando l’amore brucia l’anima” imparò a suonare la chitarra e frequentò un boot-camp rock ‘n’ roll per poter diventare baritono e fornire un’imitazione perfetta della voce del cantante. Per non uscire dal personaggio, accettava di parlare solo con chi si fosse rivolto a lui chiamandolo J.R., ovvero il vero nome di Johnny Cash.

I ruoli più discussi

Queste sono solo alcune delle tante stravaganze che caratterizzano Joaquin come attore e che lo rendono un professionista a tutto tondo. È arrivato anche a trasformare radicalmente il suo corpo in più di un’occasione. Per interpretare Freddie Quell in “The Master”, chiese ad un dentista di farsi immobilizzare la mascella con degli elastici, per farla restare ferma mentre recitava. Invece per calarsi nel ruolo di Gesù in “Maria Maddalena”, seguì una dieta di sole 300 calorie. L’idea di Joaquin Phoenix era quella di rappresentare Gesù come un uomo emaciato, dando particolare risalto al suo lato umano, piuttosto che quello divino. Ciò che rende uniche le interpretazioni di Joaquin Phoenix è che non si limita semplicemente a fingere di essere il personaggio, bensì diventa il personaggio stesso. Ovviamente “Joker” non fa eccezione.

L’immedesimazione in Joker va oltre ogni immaginazione

Per prepararsi alla parte non si è limitato a perdere 24 chili, ma lo ha fatto anche in un breve arco di tempo, per coinvolgere anche la sua mente nel processo. Ha affermato che perdere peso in poco tempo è stato utile per entrare nella psicologia del personaggio, da lui immaginato come fragile e psicologicamente instabile.

Inoltre durante la realizzazione del film non ha utilizzato nessuno stuntman per le scene d’azione, scegliendo di correre un grande rischio, soprattutto nella scena in cui il suo Arthur Fleck viene investito da un taxi. Per quanto riguarda la caratteristica risata del Joker, ha dichiarato di essersi ispirato ai pazienti psichiatrici affetti da risata patologica e di aver lavorato duramente per rendere la sua risata triste e malinconica, piuttosto che gioiosa. Sarà sufficiente ad ottenere la candidatura agli Oscar? Non se ne ha ancora la certezza, ma indubbiamente sarà una delle migliori performance dell’attore, destinata a rimanere a lungo impressa nella storia del cinema.

 «Non c’è un metodo unico. Dipende dalla scena» – Joaquin Phoenix

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“Ritratto della giovane in fiamme” di Céline Sciamma. Amore ed emancipazione

By Lidia Fiore
"Ritratto della giovane in fiamme" di Céline Sciamma.

“Ritratto della giovane in fiamme” di Céline Sciamma è uno sguardo femminile su un mondo dominato dagli uomini. La sfera femminile domina interamente il film intrecciandosi armoniosamente con l’arte in ogni sua forma. Il risultato è un’opera meta-cinematografica che fonde pittura e cinema. Ne è una prova l’elegante regia di Céline Sciamma ricca di inquadrature che richiamano dipinti pre-romantici e caravaggeschi. I numerosi campi medi creano alla perfezione il concetto di unione fra umanità e natura che ricorreva nei dipinti romantici. I colori predominanti, dalle tonalità aranciate richiamano alla memoria le tele di Turner. La fotografia, caratterizzata da luce naturale sapientemente combinata con ombre create dal fuoco ricordano lo stile caravaggesco.

«Non tutto è passeggero, certi sentimenti sono profondi.» -Heloise

La messa in scena è raffinata e aggraziata, interamente giocata sul contrasto fra silenzio e sonoro. Il ritmo della narrazione è scandito dai respiri delle due protagoniste e dai profondi sguardi che le due donne si scambiano. La musica compare raramente, ma ricopre ugualmente un ruolo fondamentale. La “Primavera” di Vivaldi suonata su un clavicembalo scordato diventa il simbolo di un amore che sta per nascere, mentre l’inno intonato intorno al fuoco suggella l’esplosione di sentimenti che di lì a poco divamperà come un incendio. Nella scena finale ricompare la “Primavera”, questa volta suonata da un’orchestra. In questa occasione, la melodia diventa emblema del rimpianto dell’amore perduto.

“Ritratto della giovane in fiamme” è simbolo della critica al patriarcato

            «È una cosa buona vivere nell’uguaglianza.» – Heloise

La donna ricopre un ruolo centrale. È in particolare il ruolo della donna nel mondo ad essere discusso. Ogni personaggio di questo film è a suo modo vittima del patriarcato che domina la società. Infatti, nonostante l’uomo in questo film sia relegato al banale ruolo di comparsa, lo spettro del dominio maschile aleggia nell’intera pellicola come un presagio influenzando inevitabilmente le scelte delle protagoniste. Heloise (Adèle Haenel) è costretta ad abbandonare il convento per sposare un nobile milanese e salvare così la sua famiglia dal degrado in cui sta lentamente scivolando. La giovane vive con sofferenza l’attesa del futuro che l’attende, ma non può far altro che sottostare alle regole della società. Tuttavia, la rabbia che cova dentro la giovane Heloise è evidente e viene espressa attraverso sguardi che ben poco lasciano all’immaginazione.

Il desiderio di rivalsa è potente in entrambe le protagoniste e sarà proprio questo sentimento a unirle. Anche Marianne (Noémie Merlant) -la pittrice ingaggiata dalla contessa per ritrarre Heloise in segreto- è oppressa dal maschilismo. Essendo una donna le è ufficialmente vietato ritrarre nudi maschili. In questo modo Marianne non può studiare a sufficienza l’anatomia maschile ed è per questo esclusa dagli ingaggi più remunerativi. Ad ogni modo Marianne si oppone fieramente al divieto ritraendo soggetti maschili in segreto e sbeffeggiando velatamente gli uomini che assistono ad una sua mostra credendo che i dipinti siano in realtà opera di suo padre.

Céline Sciamma racconta la purezza dell’amore

Marianne ed Heloise sono una coppia speculare. Una è l’opposto dell’altra. Marianne è intraprendente e pragmatica. È consapevole dei suoi desideri ed è disposta a lottare per ottenerli. Al contrario, Heloise è giovane e inesperta. Non ha mai conosciuto il mondo al di fuori del convento dove è cresciuta e non ha ancora sviluppato la coscienza di sé. Il fatto che non conosca altra musica al di fuori dell’organo suonato in chiesa è emblematico di quanto il mondo di Heloise sia limitato. Il contrasto fra le due donne è reso perfettamente anche dal punto di vista cromatico: se Marianne è associata alle tonalità del rosso, simbolo di vitalità e passione, il colore di Heloise è il blu, casto e discreto.

«Nella solitudine ho sentito la libertà di cui parlavate, ma ho sentito anche che mi mancavate.» – Heloise

Eppure, nonostante le loro differenze, le due donne non possono fare a meno di amarsi. Marianne è affascinata dalla candida innocenza di Heloise che, dal canto suo, non può fare a meno di ammirare la dinamicità della pittrice. Ciò che rende il loro amore unico è il suo essere paritario. Non si tratta unicamente di un viaggio di formazione che porta la timida Heloise a conquistare una maggiore consapevolezza di sé, ma di un’esperienza di formazione reciproca. Mentre Heloise scopre la sua vera identità – emancipandosi dallo stereotipo di figlia casta e moglie devota – Marianne impara la bellezza del vero amore.

Céline Sciamma riesce nella straordinaria impresa di rappresentare un amore puro, senza scadere nel becero voyeurismo. Al contrario, la narrazione è delicata e dolce. Il risultato è un racconto intimistico che racchiude al suo interno arte, poesia e musica.

  • "Ritratto della giovane in fiamme" di Céline Sciamma.
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“The Breakfast Club” di Hughes sulle difficoltà dell’adolescenza

By Fatima Fasano
"The Breakfast Club" di John Hughes

“The Breakfast Club” di John Hughes nasce da una sceneggiatura scritta in soli due giorni e rientra nel genere cinematografico brat pack. Un classico degli anni ‘80 che, a differenza delle più comuni commedie americane per ragazzi, si immerge nell’animo degli adolescenti e ne mostra le emozioni, le difficoltà, i timori e le speranze. Queste, insieme alla volontà di essere compresi, alle aspettative e all’identificazione, rendono la pellicola di Hughes un’opera tutt’oggi moderna, in cui si rispecchiano gli adolescenti di ogni tempo. 

«And these children that you spit on as they try to change their worlds are immune to your consultations. They’re quite aware of what they’re going through..» – David Bowie 

Lotta agli stereotipi in “The Breakfast Club” di John Hughes

Sabato 24 marzo 1984, cinque studenti del Liceo Shermer devono passare la giornata in punizione. L’ambientazione del film è l’interno della scuola, in particolare la biblioteca a cui fanno da contorno i corridoi e l’ufficio del Sig. Vernon (Paul Gleason). La fotografia di Thomas Del Ruth mostra un’illuminazione completamente artificiale, che si rifà a quella della struttura scolastica. I colori sono luminosi e vari. Ognuno di essi rispecchia in particolar modo l’abbigliamento dei giovani sottolineando gli stereotipi rappresentati. Brian Johnson (Anthony Michael Hall), il secchione, indossa un semplice maglioncino verde e un pantalone beige. Andrew Clark (Emilio Estevez) è lo sportivo e indossa una canotta blu. Claire Standish (Molly Ringwald) rappresenta la principessina perciò ha una camicetta rosa. Allison Reynolds (Ally Sheedy) equivale alla disadattata ed è completamente vestita di nero. John Bender (Judd Nelson), infine, è il criminale ed è trasandato. 

«Tutti siamo un po’ strani, solo che alcuni di noi sono più bravi a nasconderlo.» – Andrew 

Ogni personaggio si differenzia dall’altro. I ragazzi provengono da realtà differenti e la loro diversità si rispecchia persino nel cibo che portano a scuola. Inizialmente si sentono completamente lontani gli uni dagli altri. Si scontrano – soprattutto perché Bender li punzecchia tutti – ma, pur non conoscendosi, mostrano ben presto un’innata solidarietà. Appartengono alla stessa generazione e, anche se inconsciamente, condividono sentimenti, sogni, angosce e paure. È proprio questa condivisione che li porta piano piano sulla strada dell’intesa e della complicità. 

Il rapporto con i genitori

Nonostante la semplicità tecnica, “The Breakfast Club” – il cui formato dell’inquadratura è 1:1,85 – ha un’eccezionale profondità tematica. Per buona parte del film, il pubblico assiste ad una commedia all’apparenza semplice. La vicinanza e la collaborazione dei personaggi li porta a sentirsi amici e inizialmente lo dimostrano con poco: fischiettando, fumando o ballando insieme. Quando si rendono conto che per tutti loro il rapporto con i genitori è complesso, capiscono di essere nella stessa situazione. Claire lamenta di essere usata dai genitori durante i loro litigi. Dimostra di essere così com’è perché spinta a seguire il comportamento e l’atteggiamento delle persone del gruppo a cui appartiene. I genitori di Allison non si prendono cura di lei, la ignorano. La giovane ha desiderio di aprirsi, di comunicare con qualcuno. Bender, invece, subisce violenza verbale e fisica da parte dei genitori. Lo rappresenta ricreando un dialogo: un chiaro segno di sfogo del giovane. 

«Andrew tu devi essere il numero uno. Io non voglio avere nessun perdente in famiglia. […] Vinci!» –Andrew 

Andrew biasima suo padre per la pressione sotto cui lo pone, causa scatenante dell’aggressione ai danni di un ragazzo della scuola – gli attacca del nastro adesivo ai genitali-. Un’azione che se da un lato voleva farlo apparire in gamba agli occhi del padre, dell’altro risulta umiliante ripensando alla scena: una situazione senza via d’uscita. Alla stessa pressione è sottoposto Brian, che però deve prendere sempre ottimi voti. Proprio questa insistenza lo stava spingendo al suicidio per un’insufficienza.  

“The Breakfast Club” di John Hughes. L’adolescenza e la paura di diventare grandi

«- Mio Dio, assomiglieremo ai nostri genitori? 
– Io no, mai.
– È inevitabile, è già successo.»

È evidente che i ragazzi temono di diventare ciò che sono i loro genitori, gli adulti che li circondano. Loro com’erano da giovani? Erano già quello che sono adesso? Chi stabilisce cosa si diventerà? Si seguirà il marchio di fabbrica dell’etichetta a cui si appartiene da giovani? Il Sig. Vernon è un chiaro esempio di ciò che non si vorrebbe diventare. Un uomo adulto, nervoso, scontroso con gli adolescenti da cui è malvisto.  

«Quando cominci a crescere, il tuo cuore muore.» – Allison 

Davvero è così che funziona? Da grandi si perde tutto ciò che si era da giovane? Tutte le emozioni, i sogni, la speranza di ciò che si vuole essere e la paura di ciò che si può diventare. Si perde la solidarietà e il senso di appartenenza? Carl (John Kapelos), il bidello, dimostra che i sentimenti, l’umorismo, la semplicità di essere chi si è veramente, con tutte le proprie sfaccettature, non muoiono crescendo. Ognuno può essere chi vuole, come vuole, senza sottostare alla categoria a cui si appartiene. 

Don’t you forget about me dei Simple Minds

«Cosa succederà lunedì, quando saremo mischiati con gli altri? Ormai io vi considero miei amici. Non mi sto sbagliando, vero?» – Brian  

Una volta superata la barriera degli stereotipi, i giovani liceali hanno creato un legame. Si sono scontrati, confrontati e hanno capito di avere molto in comune. Sanno che in ognuno di loro può esserci un genio o un atleta, una disadattata, una principessina o un criminale. Infatti, quando il Sig. Vernon legge il tema di Brian – scritto a nome di tutti – viene ripresa la citazione iniziale della pellicola. 

«Caro Signor Vernon, accettiamo di restare chiusi a scuola sacrificando il nostro sabato, qualunque sia stato l’errore che abbiamo commesso. […] Pensiamo che lei sia proprio pazzo a farci scrivere un tema nel quale dobbiamo dirle che cosa pensiamo di essere. Che cosa gliene importa? Tanto lei ci vede come vuole.» 

Temono però che ciò che gli si è rivelato durante la punizione, ossia che in ciascuno di loro c’è un pezzo di un altro, sparisca con il ritorno a scuola del lunedì. Parlando della propria vita e dei propri problemi, i ragazzi sono riusciti a raggiungere una sorta di libertà. Hanno capito di essere umani e non soltanto etichette imposte dalla società o dai loro stessi genitori. Non vogliono dimenticare ciò che è successo, il traguardo che hanno raggiunto. “The Breakfast Club” di John Hughes si apre e si chiude con “Don’t you (Forget about me)” dei Simple Minds. 

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1 Comment
    Anonimo says:
    Ottobre 3rd 2019, 10:05 am

    molto bello scritto bene mi piace sei un genio.

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