Donne Ama. Le sirene del Giappone pescatrici di perle

Da più di 2000 anni nella baia di Toba, in Giappone, esistono le sirene. In realtà non si tratta realmente delle misteriose e seducenti figure mitologiche ma delle “Ama”, letteralmente “donne del mare”. In questo meraviglioso anfratto, sull’isola di Honshū nella prefettura di Mie, le donne da più di 2000 anni si dedicano alla pesca di alghe, polpi, abaloni, ostriche e soprattutto alla ricerca di perle. Il modo in cui si immergono ha dell’incredibile. Dopo aver preparato i polmoni con ispirazioni profonde di circa 5 o 10 secondi, effettuano un’ultima respirazione senza riempire completamente i polmoni.

«Il richiamo del mare è un canto di sirena…» – Nico Orengo

Le donne Ama. Le sirene pescatrici di perle

Si immergono senza nessuna attrezzatura, quindi sprovviste anche di bombole per l’ossigeno, e riescono a raggiungere in questo modo una profondità di 30 metri circa. Spesso per riuscire a scendere tanto, aumentano il loro peso portando una zavorra di 10/15 kg e restano in apnea fino a 20 minuti.

Quando risalgono emettono un suono che è ormai associato al mare, prende il nome di Ama-isobue e dipende dall’iperventilazione conseguente all’emersione. Una serie di fischi simili a quelli prodotti dai delfini e che nei secoli sono stati scambiati dai marinai in mare con il richiamo di splendide sirene. Le donne lavorano in turni di circa un’ora e mezza, si immergono anche 60 volte, spesso nude e munite al massimo di guanti speciali per poter pescare e trovare le perle.

Le Ama vengono istruite giovanissime, già da ragazze si allenano nel praticare questa tipo di pesca subacquea fino ai 22 anni. Tradizionalmente ciò che portano in superficie dal profondo del mare gli frutta un buon guadagno, consentendo loro di essere pienamente indipendenti. Gelose e fiere della propria libertà, tra le donne Ama non c’è traccia di rivalità, ma al contrario un reale senso di appartenenza e solidarietà che le ha spinte ad insegnare questa pratica ad altri giovani donne, tramandando di generazione in generazione i segreti del proprio mestiere. Affascinanti e misteriose, vivono la vita seguendo i ritmi del mare. Molte non si sposano, ma c’è anche chi sposa marinai e pescatori che vivono a lungo lontano da casa.

La tradizione vuole che queste donne debbano immergersi seminude, coperte soltanto da un perizoma chiamato Fundoshi. Tuttavia dal 1964 una calda muta da sub ha preso il suo posto e in alcuni casi è subentrato l’ Isogi, una sottile veste di lino bianco. Vivono gran parte della loro vita nelle profondità del mare al punto che proseguono la pesca subacquea e la ricerca di perle fino al giorno prima di partorire, per poi riprendere subito dopo il concepimento dei figli. Spesso sono state spesso raffigurate mentre allattano i loro bimbi tra un’immersione e l’altra.

La fine di un misterioso mondo legato al mare 

L’esercizio fisico che la loro attività richiede, rende le donne Ama bellissime e forti sirene, dalla pelle tonica e di ottima salute. Infatti continuano la loro attività fino ad un’eta avanzata e in alcuni casi continuano fino al raggiungimento degli 80 anni. Purtroppo si tratta di una realtà in declino. Le Ama rimaste sono quasi tutte donne anziane, perché le giovani giapponesi non si riconoscono più in questa figura e scelgono di seguire altre strade ed altri mestieri. Da secoli l’incanto della loro storia ha affascinato il mondo. Molto si è scritto su di loro, molte le fotografie, i romanzi, i rimandi cinematografici. Tra i tanti omaggi alla loro tradizione, c’è il fotoreportage di Fosco Maraini, che nel 1954 cercò di immortalare questo mondo in via di estinzione.

Oggi molti turisti si recano sull’isola per ammirare le Ama al lavoro. L’indotto generato dal turismo rende loro ormai più della pesca stessa. Ma i frutti del loro duro lavoro si possono comunque assaporare sulla spiaggia in appositi capannoni –Ama-hut o Amagoya – , dove servono i frutti di mare grigliati e accompagnati  dalla salsa umakunaru e dal tè verde. La prefettura di Mie ha recentemente candidato le donne Ama e le loro usanze all’Unesco come Patrimonio dell’Umanità.

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