
Edith Piaf. E chi non la conosce? Sebbene sia stata una cantante francese attiva più di 50 anni fa, tutti conoscono almeno una delle sue canzoni più famose. Ma Edith Piaf non è una cantante: è LA cantante per antonomasia, il simbolo della Francia post-bellica e che ha rappresentato la nazione in tutto il mondo per quasi tre decenni. È il simbolo musicale della Francia. Punto.
Tuttavia, cosa si sa realmente di lei? Sappiamo che era uno scricciolo di donna – 1,47 cm di altezza – e da qui le è stato assegnato il nomignolo piaf, “passerotto” in argot parigino. Si sa che aveva una voce molto particolare, potente, bassa, acuta, a seconda di cosa il brano richiedesse. Sappiamo che è nata in una famiglia povera e disagiata, costretta a crescere in fretta dalla vita che conduceva – una leggenda racconta che sia nata su un marciapiede-. Risaputa è la sua sfortuna in amore, destino ripercorso e riscontrabile nei testi delle sue canzoni. Stop. Davvero era una comune cantante di canzoni d’amore? Forse, ma soprattutto, non solo. Ed è proprio questo che dobbiamo sapere di lei.
Edith Piaf e il dovere di andare oltre le semplici parole. “Je ne regrette rien” e “La vie en rose”
Perché “La vie en rose”, forse la canzone d’amore francese più conosciuta nel mondo, non è solo una canzone d’amore? Perché arriva al termine della Seconda Guerra Mondiale. In un momento in cui tutto il mondo è tra rovine e morti, il Passerotto ci canta che comunque la vita è rosa perché lei ama. Perché si deve e si può amare. No, non è per dire che “l’amore ci salverà tutti”, bensì per affermare che c’è sempre speranza e ottimismo per andare avanti o ripartire. Ed è proprio per questo motivo che questa canzone diventa l’inno della rinascita per una nazione appena uscita dalla guerra.
“Je ne regrette rien” è interpretata dall’artista per la prima volta nel 1960. È considerato il simbolo della sua vita tragica corollata da lutti, incidenti, malattie, droghe. Ma, oltre che con i versi, con l’intro marziale diventa ben altro. Diventa, dopo la dedica del brano da parte della cantante alla Legione Straniera impegnata nella guerra d’Algeria, parte integrante del patrimonio del corpo militare che la adotta come inno. Diventa una marcia di gloria e orgoglio per il passato e di forza per il futuro.
Una voce che attraversa il tempo
Si può spaziare senza alcuna conoscenza tra i testi che costellano le tante tracce scritte e/o interpretate da Edith Piaf. A un primo colpo d’occhio sembra davvero che il fil rouge che li accomuna sia il tema dell’amore, felice o infelice, a seconda del periodo storico in cui l’artista opera. Ma andando in profondità si comprende invece il motivo per cui la cantante sia considerata la chanteuse réaliste più importante della Francia tra gli anni ’30 e ’60. Spesso i suoi testi cantano di umili, di ultimi, di un mondo semplice dal quale lei stessa proviene. Si ritrova sempre un po’ di Piaf in questi brani. Non solo per le disavventure amorose o di salute, ma anche per le sue umili origini e le difficoltà che fin da piccola ha dovuto affrontare per sopravvivere.
La sua vera forza è la voce. Si possono cantare brani perfetti e coinvolgenti, ma se non si sa come cantarli rimangono sterili interpretazioni. Invece la sua voce, così variegata e diversificata da toni aggressivi e acidi o dolci, delicati e teneri o ancora gioiosi, trasmette il senso di ribellione e inquietudine che caratterizza gli artisti intellettuali della rive gauche. E il realismo che si scatena nelle arti in quel trentennio straripa da lei in ogni canzone, in cui si riflette un mondo immerso nel suo dolore quotidiano.
C’è ben altro oltre l’amore che in quel periodo deve essere cantato e proprio per questo motivo sarà lei stessa, negli anni, a diventare una mecenate per artisti come Yves Montand o Charles Aznavour. La sua prematura morte ci ha resi orfani di possibili successi e interpretazioni indimenticabili. O forse, come accade a volte, anche la morte prematura ha reso immortale il Passerotto, se le sole canzoni non fossero state abbastanza.
Autore: Sabrina Manavella