
“Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders è uno di quei film impossibili da descrivere in maniera efficace. Tra un cast di eccellenza – Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk nei panni di se stesso, Otto Sander – e i numerosi pensieri che sorgono spontanei dopo immense riflessioni, il vasto repertorio dei temi importanti trattati in questo film stupisce e ammalia, lasciandoci con la bocca spalancata davanti allo schermo. Per tutta la durata del film, sentiamo recitata la meravigliosa poesia dedicata all’infanzia, scritta da Peter Handke, co-autore del film assieme a Wim Wenders. Il regista sembra esortarci a tornare a dare uno sguardo sul mondo con gli occhi di un bambino, che non da assolutamente nulla per scontato. La poesia ricorda una logica “illogica”, fa considerare ciò che accade nella sua naturalezza, senza cercare per forza una spiegazione.
«Quando il bambino era bambino,
camminava con le braccia ciondoloni,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente
e questa pozzanghera il mare…»
“Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Testimonianza e ricordo
Ed ecco che fa capolino un altro caposaldo importante del film: la testimonianza, il ricordo degli eventi. Per tutta la pellicola, si segue la voce di un cantore che, tessendo le fila degli accadimenti dell’universo, fa il suo personale tuffo nel passato. Questo è anche il ruolo di Damiel, un fantastico Bruno Ganz, e Cassiel, i due principali protagonisti del film. I due registrano gli episodi e le posizioni dell’essere umano, per poter tramandare la memoria all’eternità. Ma questo processo è enormemente limitato, come ci mostra lo stesso Damiel:
«Sì, è magnifico vivere di solo spirito e giorno dopo giorno testimoniare alla gente, per l’eternità, soltanto ciò che è spirituale. Ma a volte la mia eterna esistenza spirituale mi pesa, e allora non vorrei più fluttuare così in eterno. Vorrei sentire un peso dentro di me, che mi levi questa infinitezza legandomi in qualche modo alla terra, a ogni passo, a ogni colpo di vento. Vorrei poter dire: ora, ora e ora! E non più: da sempre, in eterno. Per esempio, non so, sedersi al tavolo da gioco ed essere salutato, anche solo con un cenno. Ogni volta che noi abbiamo fatto qualcosa era solo per finta: ci siamo lussati l’anca facendo la lotta di notte con uno di quelli, sempre per finta. E ancora per finta abbiamo preso un pesce. Per finta ci siamo seduti ad un tavolo, abbiamo bevuto e mangiato. Ci siamo fatti arrostire l’agnello e abbiamo chiesto il vino, per finta, sotto la tenda nel deserto, solo per finta.» – “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders
Quindi non è possibile comprendere veramente il coinvolgimento in prima persona della realtà e dei fenomeni sull’uomo, se non si vivono sulla propria pelle.
Lo sguardo di Wim Wenders
Il nostro regista cerca un’opinione fuori dal comune per far comunicare i muri, le piazze, le strade, i cieli capovolti, le chiese. Non è importante una trama, più che altro formare una Storia. Damiel – Bruno Ganz – e Cassiel – Otto Sander – sono i due angeli protagonisti che, pur parlando di un qualcosa di impalpabile, mirano alla lussuria dell’uomo. Marion – Solveig Dommartin, ex compagna del regista – è la circense che resiste alla patologia del tempo; l’angelo Damiel, guardandone i progressi, se ne infatua, diventando uomo. La sottile trama è la scusa che fa convolare a nozze il black and white del noumeno con i colori del fenomeno. Gli angeli scrutano l’esistenza di ciò che li circonda e la meravigliosa fotografia di Henri Alekan, riesce a benedire la voce di ogni singolo riflesso di luce, di ogni ombra proiettata sul muro.
Grazie ai monologhi e dialoghi di Peter Handke, Wim Wenders riesce a destreggiarsi tra una metafisica mai retorica e tra le “ali del desiderio” – Wings of Desire, titolo americano del film -. Il regista utilizza dei buoni movimenti di macchina, sia per le riprese aeree tra la dea della Vittoria e la vecchia chiesa bombardata di Kaiser Wilhelm, sia per la deserta Postdamer Platz e la Biblioteca Centrale dove migliaia di pensieri, poesie (Rilke) e musiche circolano. La sacralità di una città come Berlino diventa il fulcro del risultato finale, tra cultura e passato.
La scelta di Berlino come ambientazione
La Germania non si scorda del grande disastro di una Berlino distrutta alla fine della seconda guerra mondiale. Le immagini di repertorio degli americani dopo il loro arrivo nella capitale tedesca riprendono un doloroso memento. C’è un muro a separare l’est dall’ovest, una linea invalicabile che testimonia uno stato di pace apparente. Berlino è ancora una città divisa dal muro, logorata dalla guerra da entrambe le parti. Segnata visibilmente, ma con i suoi lati nascosti, composti da macerie, palazzi distrutti, piazze ormai inesistenti. Tracce invisibili di una vita che è stata vissuta, e poi persa.
Potsdamer Platz, una piazza che muta realmente nel tempo e che oggi è ancora diversa rispetto a quella ritratta da Wenders, viene tanto cercata da Homer ma non è mai ritrovata. Una piazza che muta realmente nel tempo, dato che oggi è ancora diversa rispetto a quella ritratta dal regista nel film. Sono davvero tantissimi i piccoli particolari che stupiscono lo spettatore e lo fanno affezionare non indifferentemente ad “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. È l’incredibile vena poetica che ci sommerge in questo incommensurabile incanto. E sì, “siamo tutti nella stessa barca”. E questo dovrebbe scaturire un’altra delle nostre mille riflessioni.
“Il cielo sopra Berlino” si insinua tra le crepe della distruzione e mira alla bellezza
Wim Wenders trova un equilibrio tra il bisogno di far parlare i vari luoghi – “Falso movimento”, “Lo stato delle cose”, “Paris Texas” – e la scelta di un punto di vista non sempre d’accordo con la realtà oggettiva e spesso iperbolica. “Il cielo sopra Berlino” diventa così anche un testimonial fotografico prima della fine del mondo. Nel 1989 il muro crollerà per mano della Glasnost di Gorbaciov e gli spazi semideserti di stampo sovietico vedranno sorgere il centro Sony, simbolo di un capitalismo prima inesistente nella DDR. Lo sguardo del regista partecipa alla vita di ogni singolo umano. Il mondo sognato dai bambini, gli unici che possono vedere gli angeli, gli unici a guardare ancora verso il cielo, opposti alla memoria storica di Berlino cadaverica, testimone di una realtà abusata.
L’altra parte del muro diventa desiderio, di fronte alla realtà contingente; il tentativo di valicare questa linea, mentre il senso della vita viene bloccato da un’istantanea fotografica. L’angelo Bruno Ganz ha bisogno di diventare umano per amare, per soffrire, per gioire, per sentirsi un qualcosa. Le immagini circensi dopo la performance sono un omaggio a Chaplin; gli occhi di Marion, pieni di lacrime, ci danno il senso di malinconia di un’acrobata che sa volteggiare come un angelo sul palco, ma che si ritrova da sola davanti allo specchio. L’amore è anche una prova di stabilità, come quelle che lei affronta tutti i giorni. L’amore è la necessità di sorreggersi a vicenda, con la corda dell’equilibrio ben ferma. E Damiel, aiutato da un altro vecchio angelo famoso, – Peter Falk, nel ruolo di se stesso – riuscirà a far tornare il colore nella vita della giovane circense. Berlino diventa, quindi, il simbolo dell’uomo moderno, un uomo che si contraddice, si interroga, diventa il nucleo centrale di un mal de vivre scandito dai granelli di sabbia nella clessidra.