La leggenda del pianista sull’oceano. Un fiore custodito dai limiti

"La leggenda del pianista sull'oceano"

Per “La leggenda del pianista sull’oceano” Giuseppe Tornatore ha riadattato il monologo di Alessandro Baricco “Novecento” per il grande schermo. Il lungometraggio tocca numerose tematiche, tra cui le migrazioni verso l’America, la speranza di una vita migliore, lo sfruttamento, l’abbandono, l’amore, ma si basa soprattutto sulla capacità e sulla difficoltà di vivere la propria vita, sulle paure e sulla crescita. Si focalizza sulla vita di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento (Tim Roth), qualcuno che per il mondo non esisteva e che, in fondo, non è altro che l’immagine dei timori dell’uomo, della consapevolezza di sé e dei limiti che ci si pone.  

«Me lo chiedo ancora se ho fatto bene ad abbandonare la sua città galleggiante e non lo dico solo per il lavoro. Il fatto è che un amico come quello, un amico vero, non lo incontri più se solo hai deciso di scendere a terra, se solo vuoi sentire qualcosa di solido sotto i piedi e se poi intorno a te non senti più la musica degli dei. Ma, come diceva lui, non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla.» – Max, “La leggenda del pianista sull’oceano” 

La pellicola ha vinto 6 Nastri d’argento, altrettanti David di Donatello, 4 Ciak d’oro e un Golden Globe alla Miglior colonna sonora. Quest’ultima è frutto del compositore Ennio Morricone che impiegò quasi un anno per la stesura dei brani. Elemento decisamente essenziale, la musica de “La leggenda del pianista sull’oceano” regala molte sensazioni intense che lasciano trasparire l’interiorità del protagonista e la profondità degli eventi che toccano direttamente lo spettatore. 

“La leggenda del pianista sull’oceano” di Giuseppe Tornatore in due tempi e colori

«Sapeva leggere Novecento, non i libri. Quelli sono buoni tutti. Sapeva leggere la gente, i segni che la gente si porta addosso, posti, rumori, odori. La loro terra, la loro storia, tutta scritta addosso. Lui leggeva e con cura infinita catalogava, sistemava, ordinava in quella immensa mappa che stava disegnandosi in testa. Il mondo magari non l’aveva visto mai, ma erano quasi trent’anni che il mondo passava su quella nave. Ed erano quasi trent’anni che lui su quella nave lo spiava e gli rubava l’anima.» – Max 

“La leggenda del pianista sull’oceano” si divide tra passato e presente. Il primo si sviluppa dall’infanzia di Novecento fino alla sua età adulta, mentre il secondo segue Max Tooney (Pruitt Taylor Vince), il suo presente, fino a congiungersi nell’incontro finale dei due musicisti. Il montaggio di Massimo Quaglia alterna i due tempi sia attraverso il racconto di Max, che tramite i flashback del trombettista. Quando ad esempio quest’ultimo si ritrova a guardare il Virginian, riporta alla mente ciò che ha vissuto lì e i suoi ricordi vengono mostrati direttamente allo spettatore.  

Non c’è una particolare differenza tra le sequenze che distinguono le due temporalità. Le scene sulla nave sono caratterizzate dal movimento della camera che segue quello del mezzo marittimo, mentre quelle a terra – e quindi il presente – mantengono la camera stabile. Inoltre, la fotografia di Lajos Koltai si tiene pressoché uguale, l’unica differenza sta nei colori a cui tendono le immagini. In effetti nel passato ci sono sia tonalità di marrone che di blu, mentre nel presente prevale decisamente il marrone, il giallino e le loro sfumature. I colori prevalenti non sono casuali. È chiaro che il marrone rappresenta la terra, mentre il blu il mare: esattamente i luoghi in cui si contrappone la vita dei personaggi, eccetto quella del protagonista. 

La filosofia dietro al film: il Virginian come comfort zone

«Perché non scendi una volta? […] Perché non lo vai a vedere il mondo, con gli occhi tuoi? Ci hai mai pensato? […] Il mondo è lì, c’è solo quella fottuta scaletta da scendere. Che sarà mai qualche stupido gradino?» – Max 

“La leggenda del pianista sull’oceano” di Giuseppe Tornatore rivela una particolare profondità tematica che viene racchiusa nel protagonista. Danny Boodman T.D. Lemon Novecento si fa immagine delle paure dell’uomo e delle sue ansie. Anche se non ne parla mai esplicitamente, queste sensazioni sono ben visibili nei suoi occhi e nel suo comportamento. Il Virginian è sua madre, il ventre che lo ha portato in grembo, la casa lontano dalla quale affiorano i timori e le tensioni della vita. Essendo nato e cresciuto in quel luogo delimitato, lo sente come un posto sicuro, la sua zona comfort, in cui poter esprimere le sue potenzialità. Novecento, in effetti, riesce a creare qualcosa di meraviglioso all’interno di quei confini, diventando un grande pianista, senza pari. Attraverso le note, Novecento esprime il suo modo di vedere le cose, racconta le storie delle persone che viaggiano sul transatlantico. Non ha paura di esprimersi in quello spazio finito.  

«Tutta quella città… non si riusciva a vederne la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Era tutto molto bello su quella scaletta e io ero grande con quel bel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi che sarei sceso, non c’era problema. Non è quello che vidi che mi fermò, Max, è quello che non vidi. Puoi capirlo? Quello che non vidi. In tutta quella sterminata città c’era tutto tranne la fine. C’era tutto. Ma non c’era una fine. Quello che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo. Tu pensa a un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono 88 e su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito. E dentro quegli 88 tasti la musica che puoi fare è infinita. Questo a me piace. In questo posso vivere.» – Novecento, “La leggenda del pianista sull’oceano”

Perché Novecento non scende dalla nave? La terra luogo di decisione e crescita

«Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai… Quella tastiera è infinita. Ma se quella tastiera è infinita allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. E sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche soltanto le strade, ce n’erano a migliaia! Ma dimmelo, come fate voialtri laggiù a sceglierne una. A scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è. Non avete paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…» – Novecento 

Tuttavia proteggendosi in quei confini, Novecento rimane un uomo ingenuo. Non riesce a conoscere la vita per ciò che è – in effetti non l’ha mai conosciuta – e la possibilità di farlo lo impaurisce. In questo modo mostra i limiti umani e le paure in cui ognuno può rispecchiarsi. Scendere a terra implica crescere, diventare quello che una società vuole che diventi. Implica prendere delle decisioni, affrontare ciò che non si conosce. In quell’infinità di possibilità, Novecento preferisce non fare alcuna scelta. Per lui è difficile dover preferire qualcosa ad un’altra. Le opportunità, le occasioni, le strade sono tante, troppe. Novecento ha bisogno di delimitare la sua vita, proprio come lo spazio in cui vive. Perciò, rinuncia a ricominciare da zero. 

«Io ci sono nato su questa nave. E vedi, anche qui il mondo passava, ma non più di duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano, ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato a vivere in questo modo. La Terra è una nave troppo grande per me. È una donna troppo bella. È un viaggio troppo lungo. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Non scenderò dalla nave. Al massimo, posso scendere dalla mia vita. In fin dei conti, è come se non fossi mai nato. Sei tu l’eccezione, Max. Solo tu sai che sono qui e sei una minoranza. Non ti resta che adeguarti. Perdonami amico mio, ma io non scenderò.» – Novecento, “La leggenda del pianista sull’oceano”

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