
“Whiplash” di Damien Chazelle è il secondo lungometraggio che vede il cineasta impegnato come regista e sceneggiatore. L’idea riprende il cortometraggio omonimo del 2013, premiato all’Aspen Shortsfest e al Sundance Film Festival. Pare sia ispirata all’esperienza personale del regista. Durante il liceo, Damien faceva parte di una jazz band molto competitiva, il cui istruttore ha ispirato il personaggio di Terence Fletcher amplificandone le caratteristiche e inserendo l’atteggiamento estremamente duro di altri band leaders.
La particolarità del film non sta soltanto nella sua riuscita tecnica, ma anche nella capacità di trasmettere allo spettatore le sensazioni e, soprattutto, l’ansia e la pressione che prova il protagonista nella speranza di raggiungere i suoi obiettivi. Il psychological drama musicale ha riscosso un notevole successo, vincendo un Golden Globe per il migliore attore non protagonista, tre Oscar e tre BAFTA per il migliore attore non protagonista, il miglior sonoro e il miglior montaggio.
“Whiplash” di Damien Chazelle. L’emotività del protagonista si riflette nello spettatore
«Abbiamo Buddy Rich qui!» – Fletcher
Sin dalle prime scene, “Whiplash” di Damien Chazelle riesce a far entrare lo spettatore nella psicologia di Andrew (Miles Teller), suscitando nel pubblico le stesse sensazioni del protagonista. Andrew è costantemente alla ricerca di approvazione per la scelta che ha fatto: studiare al conservatorio Shaffer per diventare un grande batterista. Non trovandola in suo padre, la affida nelle mani del direttore dell’orchestra principale dell’istituto, Terence Fletcher (J. K. Simmons). Vuole dimostrare il suo valore ma non riuscendoci, comincia a perdersi. La sua caduta è causata sia dal suo concentrarsi solo sulla carriera musicale, sia dalle umiliazioni ricevute dall’insegnate.
«Ora hai sbagliato. […] Attento al tempo. Tranquillo, non ti preoccupare. […] Perché credi che ti abbia lanciato una sedia? […] Adesso ti metti a frignare come un poppante? Non sei preparato ad affrontare gente come me, Andrew?» – Fletcher
Sin dalle prime sequenze è evidente l’impegno di Andrew, tuttavia la sua ambizione sfocia nell’ossessione. La pressione e l’affanno sono palpabili anche nella musica che accompagna le scene, inducendo nello spettatore un forte senso di ansia. La tranquillità si ritrova soltanto quando Andrew abbandona la musica. Mantiene una routine che viene però interrotta dal nuovo incontro con Fletcher.
Tra chiaroscuro e dettagli
La fotografia del lungometraggio diretta da Sharone Meir si differenzia da quella del cortometraggio di Edd Lukas. Quest’ultima presenta delle immagini molto chiare e limpide, persino i muri dell’aula sono bianchi. Il lungometraggio, invece, è molto più scuro e cupo, il che riesce a dare degli intensi chiaroscuri alle scene. La pellicola, infatti, si apre al suono di una batteria ma non viene mostrata alcuna immagine, lo schermo rimane nero. Di colpo si vede una stanza in lontananza, alla quale ci si avvicina con una carrellata che segue la velocità dei passi del direttore d’orchestra Terence Fletcher. Lì, c’è un batterista intento a provare. La stanza rimane buia, le luci non illuminano particolarmente la scena che perciò mantiene un certo contrasto.
«Ero lì per spingere le persone oltre le loro aspettative, era quella la mia assoluta necessità. Altrimenti avremmo privato il mondo del futuro Louis Armstrong o del futuro Charlie Parker.» – Fletcher
Gli stessi chiaroscuri sono presenti durante tutto il film. In particolare, quando i musicisti suonano ci si sofferma sui dettagli dei loro volti e sugli strumenti coinvolti o, ancora, sul piede di Fletcher che batte il tempo. È proprio così che si sviluppa anche l’ultima sequenza, in cui ci si concentra sul volto di Andrew, sul suo sguardo, su quello di Fletcher. Poi sulla batteria, sulle mani di Andrew, sulle bacchette e quindi sul brano. Le inquadrature e i colori uniti alla musica – sia classici del jazz che brani composti per la pellicola – fanno entrare nel vivo delle scene, regalando allo spettatore non solo una pellicola di particolare intensità emotiva, ma anche una piccola esperienza nella musicalità del jazz.