Una splendida ragazza dal volto stanco che si affaccia con aria di sfida da una vasca da bagno. Un paio di stivali sporchi di fango gettati disordinatamente per terra. Un normale servizio fotografico, se si vuole, anche moderatamente sexi. Lo sarebbe, se la stanza da bagno non fosse quella del Fuhrer, Adolf Hitler. “La vasca del Fuhrer” di Elizabeth Lee Miller divenne in poco tempo una foto iconica per il suo carico di crudezza, spietatezza e verità.
«Dentro la sua vasca ho lavato via lo sporco di Dachau» – Elizabeth Lee Miller
“La vasca del Fuhrer” di Serena Dandini: il libro che riscopre Elizabeth Lee Miller
Serena Dandini nel romanzo biografico “La vasca del Fuhrer” porta alla luce la storia e la passione rivoluzionaria di Elizabeth Lee Miller, oscura fino a poco tempo fa al suo stesso figlio Antony.
L’inizio della sua riscoperta ricorda tanto Vivian Maier, il cui talento era rimasto per anni relegato in soffitta, con infiniti rullini custoditi in alcuni scatoloni. Anche nel caso di Lee Miller, le foto sono state ritrovate dal figlio rovistando tra vecchie scatole con più di 60mila negativi, diari, articoli, lettere e ricordi. Dandini racconta la storia ricostruita dal figlio della fotoreporter americana.
«Sin dalla nascita, Antony ha convissuto con una donna problematica e infelice senza mai capirne le ragioni» – Serena Dandini
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L’unica donna fotografa a documentare la liberazione di Dachau e di Buchenwald
Uno dei grandi cambiamenti che si devono alla passione di Elizabeth Lee Miller fu quello di portare sulle pagine di Vogue, raffinata rivista di moda, fotografie che denunciavano la realtà dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale. Le sue immagini erano profonde, accurate quanto strazianti, ma pieni di originalità e simili a visioni artristiche, che nel loro surrealismo mostravano tutto il dolore della scena immortalata.
Fu dopo il lavoro come fotografa freelance per Vogue che E. Lee Miller, agli inizi degli anni Quaranta, divenne corrispondente accreditata per l’esercito americano. Fu l’unica fotografa donna a documentare la liberazione dei campi di concetramento di Dachau e di Buchenwald. I suoi erano reportage senza censure.
“La vasca del Fuhrer” di Elizabeth Lee Miller: credetemi è tutto vero
“La vasca del Fuhrer” di Elizabeth Lee Miller venne pubblicata nel 1945, durante la liberazione, diventando subito iconica. Il 179° Reggimento, 45° Divisione dell’esercito americano scoprì a Monaco di Baviera un appartamento di Hitler in via Prinzregentenstrasse 16.
Lei insieme al fotografo David E. Scherman entrarono per primi: la stanza era in un ordine maniacale, molte delle porcellane e degli argenti avevano incise le iniziali A.H. con la croce nazista. Entrarono nel bagno: la vasca, al centro della stanza, con una cornice di Adolf Hitler a sinistra e una statuetta di Venere sulla destra rappresentava il fulcro di un’inquadratura perfettamente simmetrica e bilanciata.
Fu di Elizabeth Lee Miller l’idea di questo scatto, in una variante della foto si mostra con un gomito alzato, riprendendo la posa della statuetta di Venere. La divisa militare e l’elmetto d’ordinanza posati su una sedia, la polvere di Dachau sugli stivali, posti lì a violare con ribellione l’intatto bianco del tappetino. La stanchezza dipinta sul suo volto non ne cancella la bellezza, con le labbra dipinte da un rossetto rosso acceso -che avrebbe poi donato ad una sopravvissuta di Dachau-, quasi a voler esorcizzare la guerra.
La foto nella vasca del Fuhrer è uno schiaffo per reagire all’orrore di cui è stata testimone nei campi e che aveva fotografato. Corpi scheletrici ed occhi spiritati di quanti sembrano sopravvissuti all’inferno, uomini in pantaloni a righe, la divisa dei deportati, che guardano con sgomento il mucchio di ossa dei morti bruciati nei forni crematori. C’è molto surrealismo anche qui, come in altre sue foto di guerra, ma stavolta è la realtà ad essere surreale ed oltre il credibile.
Foto d’inconcepibile orrore dai campi di concentramento
Le foto dell’orrore su Dachau e Buchenwald che Elizabeth Lee Miller inviò in redazione, serrate nei rullini, dovettero essere corredate da una certificazione di autenticità: è troppo incredibilmente orrendo quello che le foto mostravano. Lei stessa scrisse di suo pugno nel foglio che accompagnava quei rullini:
«Credetemi, è tutto vero!»
Lee in quell’occasione assistì alla morte di un bambino, nel suo troppo largo pigiama a righe blu, e da quel momento il colore blu fu da lei aborrito. Starà male ogni volta che le capiterà di vederlo.
Nel corso della sua esperienza come reporter di guerra, Lee Miller è riuscita a dare il meglio del suo talento, ma è tornata dalla guerra svuotata, vittima di quello che adesso viene diagnosticato come stress post- traumatico –che allora ancora non si diagnosticava- e crisi depressive, che cercò di annegare nell’alcool, nonostante l’amore del marito e la nascita di un figlio.
L’esperienza della guerra da un certo punto di vista ha permesso a Lee Miller, nascosta dalla divisa, di non essere stata giudicata per il suo essere donna, ma solo per la sua bravura come fotografa e professionista. Nonostante ciò, dal punto di vista psicologico, è stata un’esperienza devastante, che l’ha marchiata col dolore per tutta la vita.
