
È il 17 aprile 1955, il professor Albert Einstein è ricoverato d’urgenza al “Princeton Hospital” per un’improvvisa emorragia causata dalla rottura di un aneurisma dell’aorta addominale. Nonostante gli sforzi dei medici, la mattina del 18 aprile si spegne una delle menti più brillanti del secolo.
La vana corsa verso il funerale del fisico
Quella stessa mattina, nell’ufficio dell’editor della famosa testata giornalistica “Life” arrivava la chiamata in cui si avvisava dell’avvenuta morte del fisico. Serviva quindi una persona presente sulla scena per fare un reportage sull’accaduto. Il compito ricadde sull’allora trentaseienne Ralph Morse, già riconosciuto fotografo di guerra. Accettato l’incarico, prese le sue macchine fotografiche e salì in auto, percorse i 140 chilometri che separavano la sua casa nel nord del New Jersey dall’Ospedale di Princeton. L’idea era di iniziare il reportage a partire dall’obitorio in cui si trovava Albert Einstein. Però non era l’unico a pensarla cosi, infatti l’area esterna dell’edificio era assediata da una folla enorme di giornalisti e curiosi. Non sarebbe mai riuscito ad entrare.
Il report andava fatto, quindi salito in macchina decise di andare nel posto in cui lo scienziato ha passato le sue ultime ore: lo studio all’ “Institute of Advanced Studies” della “Princeton University”. Durante il tragitto decise di fermarsi in un negozietto di alimentari per comprare una cassa di bottiglie di scotch! Era determinato a superare con qualche stratagemma la sicurezza dell’edificio accademico. Sapeva per esperienza che molte persone sono restie a parlare, e piuttosto che i soldi, è una bottiglia di buon liquore a far sciogliere più facilmente le lingue. Così, grazie ad una bottiglia di scotch donata al direttore dell’istituto, Ralph Morse riuscì varcare la soglia dello studio di Albert Einstein.
Ralph Morse immortala lo studio di Einstein, una poltrona ormai vuota
La scrivania, cosi come gli scaffali, abbondavano di libri, taccuini e fogli con su scritte formule matematiche. Non sembrava la stanza di un genio, quanto di una persona ossessionata dal proprio lavoro o, come spesso diceva lui, di uno «cocciuto come un mulo». A questo punto non restava che immortalare lo studio di Einstein appena scomparso. Il modo migliore per il fotografo era quello di mostrare non solo la scrivania stracolma di scartoffie, ma sopratutto la poltrona, ormai vuota.
Il pomeriggio stesso andò al cimitero per scattare altre foto durante il funerale. Dopo interminabili minuti a cercare il luogo giusto, trovò un gruppo di persone che stava scavando una fossa e, offrendogli ancora una bottiglia di scotch, chiese dove si stesse svolgendo la cerimonia. La risposta fu che il corpo sarebbe stato cremato di lì a poco, ma nella città di Trenton, da cui lo separavano ben 15 chilometri. Salì dì nuovo in auto, dopo aver regalato l’intera cassetta di liquori ai ragazzi, e partì.
Alla fine della giornata era eccitatissimo. Era stato l’unico fotografo a reperire così tanto materiale per quel giorno. Arrivato in redazione, era convinto di essere stato chiamato dall’editore per ricevere i complimenti per lo scoop. Ma le cose andarono diversamente. Il figlio di Albert Einsten, Hans, aveva chiamato ore prime la redazione per chiedere di non pubblicare il materiale inerente al funerale, per rispetto della loro privacy. Cosi le foto e la storia che Ralph Morse aveva faticosamente raccolto furono messe nel cassetto.
Soltanto nel 2014, 60 anni dopo, le foto furono pubblicate dalla stessa rivista per celebrare ed omaggiare nuovamente del grande fisico.