Gli indifferenti di Alberto Moravia. Male di vivere in chiave teatrale

"Gli indifferenti" di Alberto Moravia

“Gli indifferenti” di Alberto Moravia è uscito nel 1929 presso le edizioni Alpes. Il libro ha contribuito alla rinascita del genere romanzesco in Italia. La prima parte del Novecento aveva assistito al suo declino per la diffusione delle avanguardie e della letteratura frammentista che osteggiavano il romanzo lungo. Il testo analizza la classe sociale alto-borghese. Si tratta di una descrizione assolutamente negativa di una realtà corrotta ed egoista, i cui unici interessi sono il denaro e il sesso, per il resto è totalmente indifferente alla realtà che la circonda, da qui il titolo di Indifferenti. Il romanzo non è affatto verista, la vicenda è raccontata da un punto di vista soggettivo. I mali dei personaggi non sono fisici, ma riguardano l’anima.

«Quel giorno, mentre se ne andava passo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento: “tutta questa gente” pensò, “sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo si affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io…io invece nulla…nessuno scopo… se non cammino sto seduto: fa lo stesso”.» – cap VII

La vena teatrale ne “Gli indifferenti” di Alberto Moravia

La vita dei personaggi è abbastanza vuota e noiosa, senza alcun ideale. Il romanzo è stato strutturato come un testo teatrale, del resto Moravia ne aveva scritti diversi. La vicenda, proprio come avviene al teatro, è ambientata principalmente in luoghi chiusi e poco illuminati. Molto spesso la luce è costituita da una sola lampada con lo scopo di evidenziare soltanto il personaggio “in scena”. Ricorrente è anche la tenda che richiama il sipario del palcoscenico e segna con la sua presenza i momenti determinanti della storia. Ogni capitolo descrive minuziosamente mobili ed oggetti presenti “sul palco”, proprio come avviene nelle didascalie teatrali.

«c’erano delle macchie, il vino era rosso, il pane marrone, una minestra verde fumava dal fondo delle scodelle; ma quel candore le aboliva e splendeva immacolato tra quattro pareti su cui, per contrasto, tutto, mobili e quadri, si confondeva in una sola ombra nera.» – cap II

È significativo anche l’abbondante utilizzo del punto e virgola con lo scopo di separare la descrizione dell’ambiente dall’azione vera e propria. Non mancano poi le descrizioni dei personaggi molto teatrali ed abbondanti dialoghi.

Una farsa tragica

I protagonisti del romanzo sono pochi, l’intera vicenda si consuma nell’arco di appena tre giorni. In questi elementi ritroviamo la struttura non di un testo teatrale qualsiasi, ma di una vera e propria tragedia. Anche la messa in scena dei conflitti esistenziali ne costituisce un’ulteriore prova lampante. Il finale da tragedia tuttavia non si verifica. In genere la tragedia ha una conclusione drammatica a cui segue il principio della catarsi, ossia della purificazione che determina la fine di tutte le tensioni.

Al contrario ne “Gli indifferenti” la conclusione è soltanto l’avvio di nuovi problemi. Del resto anche quello che dovrebbe essere l’avvenimento tragico per eccellenza si trasforma in una farsa: Michele medita di uccidere Leo non tanto perché vuole eliminarlo e vendicarsi realmente, ma perché vuole vincere la debolezza e la noia che lo corrodono. Nel momento clou della scena poi la sua pistola si inceppa e finirà per accettare di seguire proprio gli affari del Merumeci.

Lo critiche a “Gli indifferenti” di Alberto Moravia

Al momento della pubblicazione la critica etichetta “Gli indifferenti” come un romanzo scritto male, la stessa cosa qualche anno prima era successa anche a “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Il linguaggio de “Gli indifferenti” di Alberto Moravia è spesso molto semplice. Non utilizza né termini troppo elevati né parole troppo plebee. Questo si spiega con la scelta ben ponderata di rifiutare la prosa d’arte, colpevole del declino del romanzo italiano: bello nella forma ma privo di sostanza. Il linguaggio poco curato serve per sottolineare ulteriormente il grigiore della vita borghese. Soprattutto viene criticata la punteggiatura che sembra essere stata inserita un po’ a caso.

«mentre scrivevo non usavo alcuna punteggiatura, limitandomi a separare l’un periodo dall’altro con una lineetta o uno spazio bianco. E questo perché ogni frase mi veniva fuori con la proprietà ritmica di un verso. Poi distribuii un po’ a caso la punteggiatura. […] Ora mi accorgo che forse non avrei dovuto mettere alcuna punteggiatura e presentare il libro così come mi era venuto fuori di scriverlo.» – Alberto Moravia

Moravia fornisce una giustificazione al suo scrivere male, ma ammette che un male è sicuramente presente nel suo libro ma non è legato alla scrittura. Si tratta del tormento esistenziale già analizzato da Svevo, ma anche da Eugenio Montale nelle sue raccolte poetiche. I pensieri sull’indifferenza e sulla vita che non cambia sono sintomo di un male interno, nucleo centrale del romanzo. È già esemplare il pensiero di Carla all’inizio.

« per la prima volta si accorse quanto vecchia, abituale e angosciosa fosse la scena che aveva davanti agli occhi: la madre e l’amante seduti in atteggiamento di conversazione l’uno in faccia all’altra. Quelle facce immobili e stupide, e lei stessa affabilmente appoggiata al dorso della poltrona per ascoltare e parlare. “La vita non cambia”, pensò, “non vuol cambiare”.» – cap I

Le altre critiche però sono state favorevoli al romanzo. Ne hanno parlato bene per esempio il critico e scrittore Giuseppe Borgese, nonché il poeta Giuseppe Ungaretti. Bisogna poi aggiungere che l’opera è piaciuta molto al pubblico, ma due istituzioni hanno osteggiato il romanzo di Moravia: la Chiesa cattolica e il regime fascista.

Per la prima il romanzo è scandaloso, viene interpretato infatti quasi come un romanzo pornografico. Per i fascisti invece personaggi inetti e apatici tradiscono il loro ideale di uomini forti, virili e dediti alla patria. Moravia, a malincuore, ammette che il successo di pubblico è da attribuire proprio al fatto che l’opera viene letta come un romanzo spinto. Lo scrittore invece voleva comunicare tutt’altro. Fortunatamente oggi si è rivalutata l’opera in tal senso, considerandola una delle più rappresentative dell’esistenzialismo – corrente filosofica e letteraria che pone appunto l’esistenza al centro della riflessione – molto prima del francese Sartre, oggi considerato il maggiore esponente di tale corrente.

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