“Il Rondò del caffè di Ristoro” di Stefania Porrino. L’insegnamento è morto?

“Il Rondò del caffè di Ristoro” di Stefania Porrino è la sua ultima mise en espace che riflette sull’insegnamento nella suggestiva location del Teatro di Documenti a Roma. Il testo originale da cui è tratto lo spettacolo e già due volte premiato, risale a 40 anni fa, quando una giovanissima Porrino aveva da poco completato il seminario tenuto dalla nota scrittrice Dacia Maraini.

“Il Rondò del caffè di Ristoro” di Stefania Porrino incontra Dacia Maraini sull’insegnamento

Il fatto che tale pièce voglia coincidere con una trasposizione artistica del rapporto didattico che Stefania e Dacia ebbero ai tempi, la dice lunga su quanto tale incontro artistico tutto al femminile sia stato significativo e formativo per quest’allieva ormai diventata maestra. Ad oggi Stefania, oltre che regista, è infatti anche docente di Arte scenica e di Regia del teatro musicale presso il Conservatorio Licino Refice di Frosinone.

Il tema cardine su cui lo spettacolo è incentrato, non a caso, è proprio questo: l’insegnamento inteso nella sua accezione etimologica di lasciare il segno (in-signum), di imprimere un’orma vivida e vitale sulla superficie di esistenze che, da quel momento in poi, nel bene come nel male, ne risulteranno inevitabilmente trasfigurate.

Quella cosa che lascia il segno 

Nel migliore dei mondi possibili l’insegnamento dovrebbe essere un’esperienza educativa – dal latino “e-ducere”, lett. “tirare fuori da” – nel corso della quale i maestri e le maestre estraggono il potenziale inespresso, il gruzzolo di talenti che i loro allievi a malapena sono consapevoli di possedere. Tuttavia per molto tempo nell’ambito della didattica artistica e non, le cose sono andate ben diversamente. Stefania Porrino lo sa bene. E lo mette in scena col suo garbato intrico di archetipi e rimandi simbolici.

L’incomunicabilità intercorre tra i mondi profondamente diversi e inconciliabili di chi insegna e chi apprende. Mondi che, con la complicità di tutta una serie di gustose trovate scenografiche e meta-teatrali, finiscono per incontrarsi e scontrarsi ai tavolini semideserti del Caffè di Ristoro, un antico luogo di ritrovo di artisti e turisti che cade oramai in pezzi (come la sua insegna).

Il Caffè di ristoro: un luogo di incontri reali e mancati

Da un lato c’è un mondo statico, fermo e stantio che pretende di dare risposte. Quello dei maestri vecchio stampo, che tengono lo sguardo rivolto al passato e che a malapena si accorgono di ciò che li circonda.

Dall’altro c’è un mondo dinamico, inquieto e innovativo che si fa domande. Quello delle allieve e delle maestre-in-potenza che cercano punti di riferimento e che finiscono per esserlo a propria volta per qualcun altro. Un passaggio del testimone potenzialmente infinito, in cui si traduce l’insegnamento nella sua forma più pura e disinteressata. La ragione della profonda incomunicabilità sta tutta nel fatto che il mondo dell’insegnamento piange, rimpiange e indottrina, mentre il mondo degli allievi genera, si rigenera e cammina.

Diversi tipi di insegnanti

Al primo mondo appartengono gli uomini. C’è Aurelio, il proprietario del caffè, uomo attempato e nostalgico che si serve solo di verbi al passato e che, qualunque cosa gli si dica, risponde raccontando aneddoti. Insieme a lui c’è il venditore di maschere: uomo un tempo famoso per le sue maschere teatrali, ma ormai (da quando la commedia dell’arte è diventata demodé) tragicamente privo di apprendisti e alla perenne ricerca del «prosecutore del suo genio» da plasmare a propria immagine e somiglianza.

Il secondo mondo è invece delle donne. A popolarlo ci sono Serenella, Silvia (alter-ego di Stefania) e Delia (alter-ego di Dacia). Tre donne appartenenti a mondi e generazioni diverse, unite dalla passione per la musica e da una misteriosa piaga che le perseguita e cui la regista sceglie di dare il curioso nome di “sonno”. Un sonno che vuole e riesce a farsi simbolo della coazione al ristagno nelle zone di comfort (e di sconforto) da cui le menti creative, inquiete e pigre al tempo stesso, devono sapersi guardare.

Se Delia, affermata componitrice, rappresenta l’archetipo della maestra, la dolcissima Serenella, studentessa di conservatorio, rappresenta l’archetipo dell’allieva. A metà tra loro si colloca Silvia, regista lirica e insegnante alla ricerca figure di riferimento che la aiutino «a cercare, a distinguere» non essendo lei in grado di «vedere».

In Delia, profonda e scostante, burbera e fragile, Silvia trova una maestra, anche se molto diversa da quella che si aspettava di trovare. Delia dell’insegnamento ha un’idea molto diversa, sa bene quanto alcuni tipi di maestri siano pericolosi «per chi è incapace di disobbedire». Delia è una donna che vuole insegnare alle altre donne a trovare se stesse, senza per questo plasmarle a propria immagine e somiglianza.

“Il Rondò del caffè di Ristoro” di Stefania Porrino. La speranza è uno scialle azzurro

I grandi maestri sono quelli che (senza mai smettere di indagare) sanno porre agli altri le giuste domande. La parte più difficile del processo – quella di trovare le risposte – resta sempre e comunque un compito degli allievi.

Nessun maestro che si rispetti dirà mai a qualcuno cosa fare e come farlo. I veri maestri sono fonti di luce che portano speranza nelle vite degli altri. Con la loro semplice presenza, riescono a illuminare e a ispirare. Risvegliano negli alunni il desiderio di essere migliori e di mettere poi al servizio degli altri quella luce interiore raggiunta perchè spronati a cercare dentro di sé.

L’insegnamento per Stefania Porrinonon è altro che la staffetta della speranza. Una catena di montaggio dell’autoconsapevolezza, il passamano luminoso di donne che insegnano ad altre donne a cercarsi dopo che qualcun altro, prima che arrivasse il loro turno, le ha aiutate a trovarsi. Il simbolo di quella speranza e di quella luce è lo scialle azzurro che indossa Delia e che, a un certo punto lo spettatore vede indossare anche a Silvia.

L’insegnante migliore è quello che lascia domande

I maestri finiscono per lasciare il segno e per lasciare agli allievi qualcosa di sé che gli apparterrà per sempre. Ma è anche vero che solo i veri maestri, dopo aver dato tutto, se ne vanno bruscamente senza salutare. In maniera apparentemente brutale, a un certo punto sanno di dover lasciare i propri allievi a se stessi, con in tasca più domande che risposte. Eppure, per quanto possa far male, è questo il loro dono più grande.

Perché se le certezze, oltre a dare sicurezza, danno sonnolenza, solo le domande sono capaci di accendere un desiderio di ricerca e automiglioramento. È arrivato il momento «di smettere di dormire» e di riprendere quel cammino costante in cui la crescita (umana e artistica) deve necessariamente tradursi per dare i propri frutti.

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