
Di seguito l’intervista a Gabriele Lavia condotta da Matteo Brighenti circa la sua ultima prodezza teatrale “I giganti della montagna”. Gabriele Lavia ne è regista ed attore, mettendo in scena così l’opera-testamento di Luigi Pirandello.
Intervista a Gabriele Lavia. “I giganti della montagna” di Pirandello
“I giganti della montagna” è il terzo testo di Luigi Pirandello in cinque anni, dopo “Sei personaggi in cerca d’autore” e “L’uomo dal fiore in bocca”… e non solo, che lei (ndr. Gabriele Lavia) dirige e interpreta per la Fondazione Teatro della Toscana. Il drammaturgo agrigentino si direbbe uno dei suoi autori prediletti.
Sì, anche per tradizione familiare. Per me è il più grande, forse più di William Shakespeare. Credo che dentro di sé si ritenesse superiore anche ai classici greci. Infatti, dichiarava: «I greci hanno messo l’uomo sull’orlo dell’abisso, io l’ho fatto cadere dentro».
Si chiude oggi una sorta di trilogia sui conflitti tra apparenza e verità, realtà e rappresentazione, individuo e mondo?
Pirandello vive con “I giganti della montagna” il suo grande momento espressionista. Si tratta di un espressionismo onirico, fantastico, visionario. Alcuni attori si sono ridotti a essere quasi degli straccioni per seguire Ilse Paulsen, l’attrice moglie del Conte, che chiamano la Contessa. Vanno in giro come pezzenti a recitare la “Favola del figlio cambiato”, copione scritto per la Contessa da un certo autore, innamorato di lei, e morto per la disperazione di non essere corrisposto. È l’incubo della Compagnia. La donna, infatti, per espiare la colpa di quel suicidio, si ostina a voler recitare la “Favola”, che ovunque ha grande insuccesso. Il mondo non capisce più la poesia. Cotrone dà rifugio alla Compagnia alla villa La Scalogna: l’arte non può abitare in mezzo agli uomini, ma solo tra loro Scalognati. Gli artisti riescono a vivere unicamente fuori dal mondo.
Cotrone (ndr. interpretato da Gabriele Lavia) è uno strano mago che dice di essersi fatto «turco» per il «fallimento della poesia della cristianità».
Vive nel fallimento, nella caduta del mondo, ai margini della vita e ai confini del sogno. Si è rifugiato o emarginato nella propria illusione che il teatro, cioè la poesia originaria, possa essere il luogo assoluto, fuori da ogni contaminazione. E lontano dai Giganti, dalle “forze brute”, da uomini che mettono paura soltanto a sentirli passare al galoppo. Nella mia vita ho visto molte edizioni dei “Giganti della montagna”: Cotrone era sempre cupo, malinconico, triste. Secondo me, invece, è allegro e incazzato. Perché è disperato.
I Giganti sono gli uomini che rifuggono la coscienza della propria origine?
Il teatro è quell’accadimento misterioso e pagano che ha trasformato i viventi in una comunità di uomini, quando si sono rappresentati e riconosciuti in quella rappresentazione, nell’origine della coscienza di “essere quel che si è”. I Giganti sono snaturati dal non voler conoscere se stessi. I loro servi imitano i costumi di violenza, ignoranza e volgarità dei loro padroni. Quindi, non possono far altro che continuare a uccidere il teatro, la poesia originaria nata come specchio dell’uomo.
Per questo l’azione del suo spettacolo avviene dentro una sala teatrale diroccata?
Viviamo un momento in cui il teatro è stato ucciso e, di conseguenza, è diroccato. Sono molto più importanti gli uffici, la burocrazia, te: i dipendenti a tempo indeterminato, che non possono essere toccati, hanno fatto sì che si potesse toccare solamente il precario, cioè il teatro. Allora, l’istituzione esiste non tanto per fare “I giganti della montagna”, quanto per giustificare gli impiegati e le loro mensilità.
Dunque per lei (ndr. Gabriele Lavia), i “Giganti” oggi sono l’apparato?
Certo, sono gli uomini del fare, mentre il teatro è fatto dagli uomini dell’essere. Luigi Pirandello l’aveva capito molto bene. Perciò, ho voluto come scenografia un teatro distrutto. Distrutto perché ci vogliono costruire degli uffici per organizzare un teatro che non c’è, è morto, ucciso proprio dagli uffici. I “Giganti” è un testo profetico, di cui l’autore non scrisse mai il III e ultimo atto, perché non fece in tempo.
Il figlio Stefano, però, ha raccolto dal padre l’appunto su come intendeva comporlo.
Sapeva che doveva morire. Sono convinto che abbia detto quel che ha detto per rassicurare il figlio sulla sua voglia di vivere: «Ho composto nella mente il III atto – non prendeva appunti, era un uomo di una memoria straordinaria – c’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto». Inventa, ma in realtà sta pensando alla morte. Credo che avrebbe chiuso il sipario con le quattro parole conclusive del II atto, messe in bocca al personaggio della seconda donna, Diamante, che ha la responsabilità di dare voce al testamento di Pirandello: «Ho paura, ho paura». Le indicazioni riportate dopo la sua morte sono un documento entrato a far parte della tradizione culturale intorno alla figura di un genio. Ma ci sono cose più importanti di cui tenere conto.
Quali?
Il Premio Nobel agrigentino sta lavorando alla sceneggiatura del film tratto dal suo “Fu Mattia Pascal”. Si sente male. Viene un medico, proprio nel momento in cui gli stanno cambiando il letto. Rimangono soli. Quando gli cava il sangue, Pirandello, per come l’ha poi raccontata il dottore, chiede: «Insomma, mi vuole dire che è questo?» E lui risponde: «Non deve avere paura delle parole: questo è morire». La cronaca racconta che abbandona subito la stesura della sceneggiatura e si mette a scrivere “I giganti della montagna”, il cui primo titolo è “Fantasmi”.
Il drammaturgo in chi s’immedesima di più? In Cotrone o in Ilse?
È Cotrone, il Conte, Cromo, il poeta suicida e anche un po’ Ilse. Si dissimula in vari personaggi. In fondo, racconta il mito di Dioniso, il dio fanciullo sbranato dai giganteschi Titani. Apollo ne prende i pezzi e li riunisce su un piccolo altarino di legno. I pastori (trágos), commossi, cantano un’ode piangente, dando origine alla trágos-ode, la tragedia. Nella chiarezza della favola, del “mito” dei “Giganti”, Dioniso è Ilse, la donna, perché col tempo l’uomo dall’essere si è spostato al fare. Così, quando l’attrice domanda di recitare davanti a un pubblico, viene portata al cospetto dei servi dei Giganti, che, inevitabilmente, la uccidono.
La donna come protagonista e vittima del genere umano?
Nel testo Pirandello affronta pure la sua tormentata relazione con Marta Abba. Non l’ho letto da nessuna parte, ma penso che la famosa scena del sogno sia una confessione della «atroce notte passata a Como», come la chiama nelle sue lettere. Cosa sia successo nessuno lo sa. Certo, lei non deve essere stata tenera. D’altra parte, Ilse ha molte facce e sa essere estremamente volgare. A Cromo che le fa notare che, da Contessa, avrebbe potuto mettere le corna al marito, ribatte: «Quelle delle farfalle si chiamano antenne». “Farfalla” è un modo con cui in Sicilia si dice “omosessuale”. C’è un mistero insondabile tra il Maestro e la sua Musa, per cui lui ha diseredato persino la figlia, contraria al loro rapporto. Alla Abba sono andati i diritti delle opere di Pirandello e, finché è stata viva, bisognava darle dei soldi per metterlo in scena. Io l’ho conosciuta: «Caro, caro, – mi apostrofava – deve farlo in blue jeans. Pirandello, se fosse vissuto oggigiorno, le sue commedie le avrebbe rappresentate tutte così.