
Roberto D’Avascio, esperto di letteratura inglese ma anche di cinema e teatro, ha dato il tuo contribruto al Napoli Teatro Festival organizzando non solo la rassegna cinematografica, ma anche due interessanti incontri sul teatro.
Intervista a Roberto D’Avascio
Salve, Roberto. Entriamo direttamente nel pieno dell’intervista. Osservando il suo contributo al Festival partenopeo, subito si nota che il fil rouge è chiaramente la teatralità sul palco e dietro lo schermo. Come mai ha deciso di approfondire proprio questo tema?
Gli altri anni abbiamo strutturato la nostra presenza al Napoli Teatro Festival Italia soprattutto come “cinema”, perché l’associazione Arci Movie si occupa di cinema. Visto che in realtà io sono un docente di Storia del Teatro, al Dipartimento di Scienze della Formazione Primaria dell’Università degli Studi di Salerno (ed è un po’ una mia seconda vita, oltre a quella di tipo associativo), ho inserito questo progetto all’interno della nostra promozione. Ho pensato di raccontare in maniera performativa anche quei personaggi della storia del teatro che non c’entravano direttamente con il cinema ma che, in qualche modo, fanno parte della stessa e unica famiglia della grande arte. Da qui, la proposta “mista” di Arci Movie: un po’ cinema e un po’ teatro, tenendo insieme queste due cose in maniera un po’ spuria e tarata molto sul Novecento.
La rassegna cinematografica orbita intorno la napoletanità. Una gestualità che è sì teatro, ma ancora prima Napoli. Tornano spesso in particolare Eduardo De Filippo e Totò. Come riassumerebbe il rispettivo apporto che hanno dato al teatro e al cinema? E cosa li accomuna oltre il substrato e l’essenza partenopea?
Quest’anno la rassegna ha per tema corpo e voce dell’attore napoletano, laddove per attore napoletano si intende un prototipo interpretativo del Novecento. Quando abbiamo poi calato questa idea, soprattutto parlando con Ruggero Cappuccio, dentro una filmografia, ci siamo resi conto che questo prototipo andava esprimendosi soprattutto tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. All’interno della selezione di film, in cui tanti attori napoletani si sommavano, molti avevano i corpi e le voci di Totò, da una parte, ed Eduardo De Filippo dall’altra, quasi come se Totò ed Eduardo fossero due poli opposti ma entrambi rappresentativi di questo modello.
Abbiamo allora giocato con questi film proiettandoli, per mostrare come questo modello si muoveva sul grande schermo, tenendo presente, però, che entrambi questi modelli provenivano dal teatro, perché sia Totò che Eduardo erano sostanzialmente uomini di teatro: l’avanspettacolo, il teatro popolare, di Totò da una parte, e, dall’altra, la compagnia umoristica e la grande drammaturgia degli anni Cinquanta e Sessanta di Eduardo.
Quindi, in realtà, i due modelli sono omnicomprensivi dal punto di vista culturale, anche se la loro espressione è cinematografica. Una certa voce, una certa postura, una modalità di impostare i gesti: tra Totò ed Eduardo il modello è completamente diverso, eppure rientrano in un’unica grande famiglia della cultura napoletana degli anni Cinquanta e Sessanta, che è stata fortissima dal punto di vista della comunicazione e del racconto della realtà del tempo.
Il teatro con Roberto D’Avascio
Antonin Artaud e Sarah Kane sono accumunati dalla schiettezza con cui indagano anche le tematiche più oscure e crudeli. Cosa li unisce tanto da giustapporli nelle lezioni di storia del teatro?
Inizialmente queste “storie del teatro” dovevano essere di più. Per motivi di riorganizzazione causa Covid-19, poi, sono diventate due. E dovendo sceglierne due, mi sono mantenuto sul Novecento e ho legato queste figure che sono un po’ i due poli di un secolo. Cosa hanno in comune? Sono due figure molto diverse, perché agiscono in epoche e con strumenti molto diversi, naturalmente, ma sono entrambi ossessionati dal teatro. Poi, per chi come me ha studiato la drammaturgia di Sarah Kane, ecco, ci sono molti echi del Teatro della Crudeltà di Artaud.
In realtà era come fare un percorso diviso in due parti, ciascuna di un’ora e mezza, in cui la storia del Novecento era riletta attraverso un modello teatrale “aggressivo”, che attacca il pubblico, che a volte è volgare, che mette in discussione lo statuto della visione, insomma: quello che da una parte era il Teatro della Crudeltà nella prima metà del Novecento e quello che poi diventa la rabbia a teatro alla fine del Novecento, in Inghilterra. Due figure lontane, quindi, per certi versi, ma vicinissime per altri.
Secondo lei il teatro in Italia oggi è vivo ed in fermento oppure si è adagiato su un rifacimento/emulazione dei classici e dei “grandi” del teatro europeo?
È sempre difficile dire che cosa succede nel presente quando tu sei nel presente. Direi che come per tutte le epoche ci sono delle cose che sono assolutamente piatte e ferme e altre che sono fortemente in movimento. Se dovessi dire oggi come si muove la scena, potrei dire che ha delle punte forti: per esempio, in questi anni stiamo assistendo all’evoluzione di Mimmo Borrelli, che sta ripensando in questi giorni anche il suo teatro precedente, alla luce di quello che è successo. Il teatro è vivo. E d’altronde, se c’è un festival come il Napoli Teatro Festival Italia che propone anche tante novità europee, io direi che lo stato dell’arte è positivo.
Ci sono molte cose interessanti anche in Italia. E direi, soprattutto, che è proprio Napoli a offrire cose interessanti: in questi ultimi anni è veramente un laboratorio, parlo del cinema, del teatro, della musica, parlo, forse, di ovvietà, perché sono evidenti. Chiaro, poi lo storico tra cinquant’anni storicizzerà questo periodo e ci dirà quanto c’era di buono e quanto invece no di questa fase, che mi sembra una nuova e positiva. Dopo il lockdown, i tre mesi che abbiamo vissuto in casa, le nuove regole di convivenza sociale, anche il teatro uscirà diverso, non soltanto noi. Anche il pubblico uscirà diverso.
Quindi, per il teatro si tratta di un momento di grande cambiamento, una fase un po’ confusa al momento. Nulla sarà come prima, quando si riformalizzerà. Gli stessi spettacoli saranno diversi dall’autunno in poi, perché il pubblico li rileggerà anche in base allo spazio che potrà occupare. C’è la massima crisi in questa fase; ma sappiamo che crisi non significa solo disfatta e negatività, ma “cambiamento” (dal greco “κρίσις”/crisis). Il teatro sta cambiando e, quando si cambia, spesso escono fuori le cose più interessanti: come successe all’epoca di Artaud e come successe all’epoca di Sarah Kane, appunto.
Come descriverebbe lo scopo, la ragione d’esistere del teatro nella società contemporanea?
Se posso rispondere a questa super domanda con una super risposta: il teatro ha una specificità rispetto alle altre arti, è una delle poche che si può fare soltanto in presenza. In quanto tale, è l’unica che continua a conservare dentro di sé una dimensione rituale, sia rispetto al pubblico sia rispetto alla scena. Le altre arti le puoi doppiare, riformulare, rivedere, hanno la riproducibilità dentro se stesse e quindi sono molto più moderne. Il teatro, anche se è la forma d’arte più antica, in realtà oggi rappresenta anche la più contemporanea dopo il lockdown, perché tutti oggi sentono la mancanza del contatto e il teatro è quell’arte che restituisce il contatto. Forse è l’unica che lo restituisce fino in fondo, perché senza contatto non c’è teatro: la musica può sopravvivere senza il contatto, mentre il teatro no.
Paradossale che la politica, la società, a volte anche gli opinionisti, questo non l’abbiano capito. Non hanno capito che in realtà è proprio quella la dimensione più vera dell’uomo. Per riportarmi ad Artaud, “il teatro è quell’abisso dentro cui entri e da cui se esci vivo esci diverso, perché hai attraversato tutti gli inferi della tua vita”. La scena si attacca ai sensi, oltre che alla razionalità, li scuote perché li intacca: in questo senso l’arte è un contagio, è fortissima e può aiutarti a cambiare. Per cui: “ha una funzione oggi il teatro?”. Sì, ed è una funzione importantissima. Io spero che la società lo capisca dando la possibilità al teatro di continuare a fare quello che deve fare.
