Intervista all’autore. ‘Più forte di ogni addio’ di Enrico Galiano

'Più forte di ogni addio' di Enrico Galiano

Classe 1977. Enrico Galiano insegna in una scuola di periferia. L’autore della webserie “Cose da prof “, che ha superato i venti milioni di visualizzazioni su Facebook, è stato il fautore del movimento dei #poeteppistiflashmob di studenti che imbrattano la città di poesie. Nel 2019 “Più forte di ogni addio” di Enrico Galiano riempie gli scaffali delle librerie italiane, un romanzo pregno di sensibilità e delicatezza. Oggi con questa intervista ci regala alcune curiosità in merito. 

Intervista. “Più forte di ogni addio” di Enrico Galiano

Da cosa nasce l’idea di scrivere il romanzo “Più forte di ogni addio”?

Diciamo che a un certo punto ho iniziato a “sentire le voci” . In particolare ho sentito la voce di un ragazzo che mi parlava di questa storia d’amore finita male, e quel ragazzo era un non vedente alla vigilia del suo esame di maturità… da lì in poi sono andato avanti come “sotto dettatura”,  ho ascoltato la sua storia e l’ho messa dentro il computer. Credo di aver scritto la prima metà del libro in meno di un mese. Che è pochissimo, se si considera che è un romanzo di 350 pagine.

Qual è il suo rapporto con Michele Strada? Da cosa nasce la smodata profondità che diventa un tratto distintivo del personaggio, durante lo svolgersi di tutta la storia?

Michele assomiglia un po’ all’adolescente che fui (e che in parte ancora sono). La sua profondità nasce credo dall’esperienza traumatica che ha subito, che lo ha costretto a maturare molto velocemente. Infatti il suo migliore amico Carlo ogni tanto per prenderlo in giro gli dice che è “vecchio dentro”.

L’amore vero, nel romanzo, dopo tante difficoltà ne esce vincitore. Lei che rapporto ha con questo sentimento?

Un rapporto in cui mi rendo conto che vince sempre lui. e che resistergli non serve a niente.

Nina è la perfetta incarnazione della paura di essere deboli ma, spesso, è proprio questo a renderla ancora più instabile in alcuni punti del romanzo, portandola a gesti estremi come provare a togliersi la vista. Lei, invece, come descriverebbe il suo rapporto col suo lato debole?

Un rapporto difficile: la mia teoria è che ognuno di noi ha la sua disabilità. La mia è quella di non avere abbastanza coraggio in certe situazioni. Vivo troppo spesso nel paese del Senno di Poi.

Il dolore è una costante in quasi tutto il romanzo: dolore che nasce dagli accidenti, dalle delusioni ripetute, dall’incapacità di gestire se stessi. Michele Strada è l’emblema di un grande dolore: la cecità accidentale, che troppo presto gli ha portato via i sogni. Da dove, da che cosa, ha trovato le parole adatte (profondamente adatte), per descrivere il buio circostante di chi crede di non vederci ma in realtà ci vede più di chiunque altro?

Lì è stato un 50 e 50 fra metodo Stanislawski (quindi immedesimazione col personaggio) e metodo usa-il-tuo-dolore-per-ricordare-le-sensazioni-che-si-provano. Credo che ognuno di noi abbia il suo Big Bang. Io ho preso il mio e l’ho raccontato attraverso la voce di Michele.

«E quando ci arriva qualcosa di bello siamo così stupidi da prenderlo a morsi, noi per primi. Noi non crediamo che possa succedere, così per evitare di essere morsi, mordiamo.» Lei ama prevenire o fa parte di quella categoria di persone che preferisce scottarsi (eventualmente)?

Eh, vedi al punto “mancanza di coraggio”. Ho morso molto spesso persone che non meritavano di essere morse. Forse anche per questo ho scritto quel pezzo: per ricordare a me stesso quanto è sbagliato farlo.

“Più forte di ogni addio” è un romanzo intriso di messaggi positivi. Anche quando fuori è sempre notte, la luce è qualcosa che proviene dall’interno, è dentro di noi. Come fare, allora, se fa fatica a uscire fuori?

La luce non va forzata. Non credo ai teologi della religione del “Pensare positivo”. La tristezza, il buio, i sentimenti negativi fanno parte della nostra vita. Vanno scoltati e va data loro voce senza per quetso farsi sopraffare da loro, proprio perché solo così la luce possa poi esplodere in tutta la sua forza.

Dal libro si desume che scrivere delle nostre paure e raccontarle in una storia sia un buon modo per sentirsi meglio. Lei come si sente quando scrive?

Cito uno dei miei sutori preferiti, Alessandro Baricco, che in un’intervista una volta rispose a queste stessa domanda così: “Quando scrivo godo”.

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