
Se si ha bisogno di una lettura approfondita e a tratti ermetica per riconoscere i sentimenti e le sensazioni più profonde di una parte del vissuto umano, la raccolta di poesie “Asintoti e altre storie in grammi” di Davide Rocco Colacrai risponde a questa necessità.
Si tratta di una raccolta descritta attraverso un linguaggio dal sapore prosastico, più che tradizionalmente poetico. Se si cerca una poesia descrittiva dei sentimenti, senza rime e con le pause del pensiero, la si può trovare fra queste pagine. Parte da un titolo dal linguaggio strettamente geometrico, probabilmente volendo indicare due situazioni che pur avvicinandosi indefinitivamente, non si raggiungono mai. Attraverso l’intervista cercheremo di capire le intezioni dell’autore, che stanno all’origine delle sue parole.
Intervista. “Asintoti e altre storie in grammi” di Davide Rocco Colacrai
Il concetto del “Sogno” ricorre in tutta la raccolta “Asintoti e altre storie in grammi”. Per lei è un’esigenza oppure assume un altro significato?
Devo dire innanzitutto che non mi ero mai accorto che nelle mie poesie un concetto ricorrente fosse il “Sogno”. Ero piuttosto convinto che ci fosse una componente metafisica ad accomunarle. Tuttavia devo riconoscere di essere una persona che sogna molto e molto intensamente. Ogni sogno – sia i sogni che appartengono alla notte sia i sogni che si fanno ad occhi aperti – lo vivo con tutta la mia persona: di cuore e vulnerabilmente. Probabilmente perché si tratta di una precisa esigenza che ho come uomo, come cittadino e come artista. Sognare – in tutte le accezioni – infatti è per me da sempre il motore per soprav-vivere in e a una società che impone alle persone di assomigliarsi: fisicamente ma anche nella costruzione della propria vita e in tutto quello che esse possono pensare e sentire. È una specie di atto di ribellione e di affermazione della mia identità.
Pablo Neruda, cileno, amante della sua Patria come se fosse la sua donna, apre il percorso della raccolta. Perché Pablo Neruda?
Ho letto alcuni fa un libro sul Neruda-bambino che mi aveva colpito profondamente per quanto riguarda la sua somiglianza con il bambino che sono stato io: un bambino curioso, attento alle più piccole virgole con cui la vita forgiava le esperienze e di cui nessuno sembrava accorgersi, consapevole del richiamo – interiore innanzitutto, e proprio per questo più spaventoso – verso qualcosa di più grande, d’infinito e infinitesimale, senza però avere gli strumenti per capire che si trattava del dono all’arte, e con delle precise radici eppure con l’ombelico unito al mondo in un’unica impronta di portata universale. La sua era un’infanzia fatta di parole che non si poteva guarire proprio come la mia.
C’è una motivazione filosofica o linguistica dietro la scelta di un linguaggio ermetico oppure è il suo segno distintivo, il suo modo di fare poesia?
Non posso negare che sono un grande appassionato di filosofia – sin dalla terza superiore, quando ho iniziato a studiarla e a immedesimarmi in una materia come non era mai successo prima – che di linguistica. Tuttavia devo riconoscere alle mie poesie il pregio di non essere frutto di una creazione artefatta o plastica quanto piuttosto di un processo intuitivo, e come tale, inconsapevole. Infatti sono solito affermare che, proprio da questo punto di vista, mi sento molto vicino al processo dei sensi che caratterizza il medium: le mie poesie sono poesie che hanno scelto me come loro padre e che di conseguenza si materializzano attraverso di me esattamente così come le presento.
Due grandi nomi risuonano, Aristotele e Dante. Nell’ universo dantesco sono presenti tutti e quattro gli elementi che compongono il mondo aristotelico: acqua, aria, terra e fuoco. Ci parla di come questi due poeti si inseriscono nella sua raccolta?
L’idea è nata da un romanzo di formazione i cui protagonisti, Aristotele e Dante, sono due ragazzi molto diversi tra di loro, accomunati apparentemente solo dalle loro origini, che tuttavia finiscono per scoprirsi anime complementari e quindi per incastrarsi perfettamente. Questo mi ha fatto molto riflettere sul fatto che nessuno di noi concede mai una seconda possibilità e su come la prima intuizione, il primo percepire, la prima energia che una persona ci trasmette determina il nostro giudizio, la simpatia o l’antipatia che proviamo, la nostra accettazione o il nostro rifiuto. Permettimi di aggiungere anche che la complementarità del filosofo e del poeta si rivela con maggiore forza per il fatto che per ciascuno ho scritto una poesia, attraverso la quale una volta il filosofo una volta il poeta possono esprimere la loro verità.
“Il dubbio dei sogni… si nasconde dietro il silenzio”, si legge in “Asintoti e altre storie in grammi”. Può approfondire per noi questo concetto?
«Ho un solo amico: Aristotele,
siamo il poeta e il filosofo, simili quanto basta, e complementari,
come due onde che s’infrangono all’istmo:
è un uomo di pioggia, dagli occhi in tempesta,
porta addosso la malinconia, il peso dei pensieri, e il dubbio dei sogni,
si nasconde dietro al silenzio
e paga ogni virgola che la vita gli mette di traverso.»
In questi versi Dante parla del suo amico Aristotele. Come dicevamo poc’anzi, siamo in presenza di due anime molto simili ma non identiche, legate da una straordinaria, e forse inaspettata, complementarità. In particolare, Aristotele è un uomo che, dentro di sé, stretto nei suoi pensieri, si interroga frequentemente sul valore dei propri sogni e sulla loro natura, sul significato che possono avere sull’essere umano e dunque anche su se stesso, soprattutto in termini di affermazione di chi è veramente nella sua qualità di individuo considerato in quanto tale ma anche nel suo rapporto (biunivoco) con l’universo.
Inoltre i dubbi riguardano i sogni come presupposti e conseguenza del destino o di un destino e affrontano altresì il se i sogni possono definirsi reali e nel caso quali sono, tra essi, quei sogni che corrispondono a verità. Questo comporta quindi anche porsi delle domande per quanto riguarda l’esistenza di un confine tra le due dimensioni – quella dei sogni e quella che definiamo tangibile – e di uno spazio di loro sovrapposizione o incontro.
Lei fa spesso riferimento a citazioni che vanno da alcuni cantanti famosi fino al “Paradise Lost” di John Milton, inserendo strada facendo “la rivoluzione” di suo padre e la “rivoluzione” di sua madre. Potrebbe spiegarci questo “excursus”?
Quando leggo un libro o ascolto una canzone o vedo un film, anche quando sono semplicemente in compagnia di una persona, sono sempre pronto per annotarmi le parole nelle quali mi riconosco o meglio le parole con le quali vengono espressi in modo preciso e a volte incredibilmente affascinante da lasciarmi senza fiato pensieri e sentimenti e sensazioni che mi appartengono e che non sapevo come dire, come “buttare fuori”. Sono parole che fungono da specchio.
Detto questo, devo dire però che non ho inserito un excursus consapevole, o comunque preventivamente deciso, o ragionato, all’interno di “Asintoti e altre storie in grammi”. Come sono solito dire (e in parte ho anticipato prima) si tratta di un libro che è emerso intuitivamente e che mi sono ritrovato esattamente così come doveva essere e come è. Ci tengo ad aggiungere che le due poesie che hai citato (ndr. tratte da “Asintoti e altre storie in grammi” di Davide Rocco Colacrai) richiamano quelle dedicate ad Aristotele e Dante: poesie nelle quali la stessa esperienza di vita e gli stessi tentativi in cui essa si rivela sono raccontati da due punti di vista diversi.
La ringrazio per il tempo che ci ha dedicato.