L’Orfeo di Monteverdi, sulle note di una favola

“L’Orfeo” di Monteverdi del 1607, chiamato anche “Orfeo, favola in musica”,  rappresenta il primo vero capolavoro del genere del melodramma, tipico dell’età rinascimentale. Tra i vari componimenti dell’epoca fu infatti il più apprezzato nei centri di cultura musicale europea. Purtroppo dopo il primo debutto al Palazzo Ducale di Mantova e in altre città italiane e a seguito della morte dell’autore, l’opera venne prematuramente dimenticata fino al XIX secolo. Tuttavia è perseverata fino ad oggi, rimanendo l’esempio più caratterizzante del melodramma italiano, oltre che il più rappresentato dai conservatori in Francia, Spagna e Inghilterra.

L’Orfeo di Monteverdi. La struttura

Nata su iniziativa del principe Francesco Gonzaga, il libretto dell’opera venne affidata alla sapiente scrittura di Alessandro Striggio il vecchio e accompagnata ad arte dalla musica di Monteverdi. I libri di Ovidio e Virgilio fecero da modelli insieme al lavoro di Poliziano “Fabula di Orfeo” e “Euridice” di Ottavio Rinuccini. Tuttavia l’opera è di per sé ancora più completa e interessante, infatti la storia si sviluppa a pieno solo tramite la sapiente espressione musicale e l’audace melodia polifonica.

Divisa in cinque atti più il prologo, l’opera consta di un numero molto ampio di strumenti, circa 41 impiegati nella composizione. Tra questi: 2 cornette, 4 trombe, 5 tromboni, 2 flauti a becco, 2 violini piccoli, 2 clavicembali, 3 chitarroni, 3 viole da gamba, arpa, archi, 2 piccoli organi a canne, organo portatile a canne. Delle volte citati all’interno dello stesso testo, questi strumenti nel Rinascimento avevano piena libertà di improvvisare. Non erano legati a regole ferree dello spartito e ciò, unito alla qualità del suono che solo questi attrezzi antichi riuscivano a ricreare, esaltava la completa originalità e irripetibilità ad ogni spettacolo.

Le più suggestive figure sceniche e musicali – l’Aria strofica, il recitativo, i cori, le danze, gli interludi musicali – che mettevano in mostra le polivalenti abilità degli artisti in scena, le aveva di certo già sperimentate il campo melodrammatico secentesco. Eppure come scrisse Robert Donington.

«Lo spartito non contiene elementi che non siano basati su altri già ideati in precedenza, ma raggiunge la completa maturità in questa forma artistica appena sviluppata… Vi si trovano parole espresse in musica come volevano fossero espresse; vi è musica che le esprime… con l’ispirazione totale del Genio»

L’accompagnamento musicale

È interessante come i due mondi rappresentati dall’opera – ovvero quello naturale della Grecia pastorale e quello degli Inferi – vengano rappresentati in modo diverso attraverso l’utilizzo di strumenti precisi. Per il primo abbiamo l’accompagnamento di strumenti a corda, tendenzialmente più dolci, – archi, clavicembali, arpe e anche flauti -. Invece per la rappresentazione dell’Oltretomba abbiamo l’uso principale degli ottoni e tromboni. Allo stesso modo funziona anche per i personaggi, ad esempio l’Orfeo canta spesso sostenuto da arpa e organo.

Per Monteverdi la richiesta fondamentale era di suonare il quanto più semplicemente e chiaramente possibile. In questo modo il grosso numero di strumentazione non creava solo caos e rimbombo all’udito. Proprio per questo la quantità di strumenti era tale da richiedere un numero strettamente necessario di artisti, capaci di suonarne a turno anche più di uno. Malgrado ciò, sembra che durante le rappresentazioni il numero di spettatori stentasse a superare quello dei musicisti.

Il melodramma è ispirato all’antico mito di Orfeo ed Euridice, di cui ci sono rimaste diverse versioni. La storia parla del giovane amore dei due personaggi, il dio Orfeo e la ninfa Euridice. Un rapporto prematuramente stroncato dalla morte di lei per mezzo di un serpente velenoso – in alcune versioni il serpente è mandato da una dea gelosa di Euridice -. Non è un mistero dunque come mai quest’appassionante e tragica favola abbia da sempre ispirato il genio di artisti d’ogni tipo.

Il mito di Orfeo e Euridice in Monteverdi

Il prologo di Monteverdi si apre sul personaggio della Musica, che si occupa di evocare il personaggio principale di Orfeo. Successivamente il primo atto introduce i due giovani amanti in un’atmosfera gioiosa e felice, con pastori e ninfe che intonano cori solenni per il primo giorno nuziale della coppia. Ma la felicità dura poco. Già alla fine del secondo atto Orfeo cade in preda a una sorta di malinconia. Ecco che la Messaggera arriva ad annunciare la fine di Euridice. Ma l’Orfeo di Monteverdi non si arrende. Accompagnato da Speranza, si reca alle porte degli Inferi dove con la sua lira fa piombare Caronte in preda a un lungo sonno, così da poter attraversare il fiume che porta all’Aldilà.

Qui trova Proserpina che, incantata dalla voce del dio, prega Plutone di riportare in vita Euridice in nome del vecchio amore che aveva provato per lei. Il re degli Inferi cede, ma in cambio Orfeo deve promettere che non si girerà mai a guardare la propria amata finchè non raggiungeranno l’uscita dell’Ade. Tuttavia un dubbio sorge nella mente del giovane dio. E se Plutone, preso dalla gelosia, lo avesse ingannato? Mentre Orfeo si gira verso la sua amata vede il suo volto improvvisamente scomparire.

La fine dell’opera è diversa da quella del mito, in cui Orfeo viene ucciso dalle Menadi, furiose per il suo canto d’amore ferito. Nel finale de “L’Orfeo” di Monteverdi, invece, il dio Apollo ha pietà di lui e lo invita a seguirlo in cielo per mirare per sempre il volto di Euridice tra le stelle. Chissà che questo lieto fine non abbia una morale intrinseca, ovvero che l’amore si concede davvero a qualcuno solo quando ci si è piegati completamente alla sua volontà.

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