
Il presepe prende vita a Napoli: sulle tavole del Teatro Politeama è andata in scena la prima de “La Cantata dei Pastori”, spettacolo patrimonio immateriale dell’Unesco che racconta la Natività di Gesù, partendo dall’annunciazione a Maria e accompagnando la Madonna e Giuseppe durante tutto il viaggio verso la grotta in cui il bambino prende vita, da luce e risveglia il mondo.
Più precisamente la storia tratta delle disavventure di Giuseppe e Maria per giungere al censimento di Betlemme e finalmente trovare riparo nella grotta della Natività. È importante ricordare il censimento perché a questo scopo i due assoldano Razzullo, uno scrivano napoletano che si rivelerà prezioso compagno di viaggio e che durante il suo cammino incontrerà Sarchiapone, un barbiere sempre partenopeo, ricercato per omicidio. Questo è l’antefatto paradossale e preliminare a “La Cantata dei Pastori”, qui sta il segreto del suo essere esilarante. Una storia sacra che in breve diventa profana e vicina al pubblico.
‘La Cantata dei Pastori’ di Peppe Barra
Per fare un buon presepe servono pastori di coneguenza. Ormai da anni Razzullo è incarnato dal maestro Peppe Barra. Peppe ha un rapporto molto intimo col pubblico napoletano che lo stima e teme al contempo le sue battute allegre. Il maestro entra in scena sempre accolto da applausi e non ha bisogno nemmeno più delle parole o dei gesti; basta un suo sguardo, un accenno di mimica facciale, o semplicemente la sua sagoma – al pari di un pastore in carne ed ossa – a far ridere il pubblico, a trascinarlo in un vortice di emozioni.
E guai a ridere in momenti di silenzio, perché lui si ferma, sottolinea timbri di risata particolari, continua ad ammiccare al pubblico, coinvolge tutti e, in parole semplici, si gode il momento, il qui ed ora. Ecco, questo è lo spettacolo nello spettacolo, il segreto che chiama tutti a raccolta – napoletani e non – da quattro secoli ad ammirare “La cantata dei Pastori”.
I pastori in scena
Negli ultimi quaranta anni tre donne hanno inoltre interpretato il ruolo di Sarchiapone: Concetta Barra, madre del maestro, tra le interpreti più famose di Napoli, Teresa del Vecchio formidabile attrice e, ancora una volta, una grandissima caratterista, Rosalia Porcaro. Rosalia ha una vèrve comica del tutto speciale, soprattutto riesce a mettere se stessa, le sue skills al servizio del personaggio. Mostra grande senso della misura, sa quando poter rubare la scena e quando fare da spalla, riesce a gestire anche i momenti cantati con discreto equilibrismo, pur essendo un’attrice pura. È molto intelligente a salutare sotto tutto quel trucco una larga parte di pubblico che la ricorda per altri personaggi comici.
Insomma geniale nel mettere la firma sul suo Sarchiapone, pur non mancando mai di rispetto ai canoni della messinscena. Barra e Porcaro sono bravi a trasportare nella contemporaneità all’occasione, ma altrettanto bravi a riportare verso la tradizione. Tra tradizione e innovazione appunto “La Cantata dei Pastori” si ripete ogni anno e sta in questo difficile equilibrio il successo di ogni sera, perché il pubblico è severo per il rispetto di una rappresentazione ormai cristallizzata nel tempo.
‘La Cantata dei Pastori’ nelle diverse edizioni attraverso gli anni
Il maestro Peppe Barra ci racconta di aver partecipato alla prima “Cantata dei Pastori” nel 1974. All’epoca Roberto de Simone interpretava San Giuseppe. Sarebbe stato lo stesso de Simone, altro nome di spicco per ricerca, studio e innovazione nel mondo delle tradizioni popolari napoletane, ad inserire una grande componente musicale e canora nello spettacolo. Altro anno significativo è il 1988 in cui va in scena “La Cantata” con la regia di Lamberto Lambertini. Concetta Barra interpreta Sarchiapone, nuovo successo, e ulteriori variazioni che la porteranno poi nel 2003 a diventare più accattivante e coinvolgente per il pubblico.
Il 2003 è stato l’anno delle scenografie di Lele Luzzati e del suo immenso contributo a questo grande spettacolo prima di morire. È stato l’anno in cui Peppe Barra ha virato fortemente verso la modernità, avendo l’abilità di lasciare invariato però buona parte dell’apparato barocco del testo. È il maestro stesso a rivelarci che molti personaggi, pur appartenendo alla tradizione cristiana, rimandano a divinità come Apollo, Diana, Castore e Polluce o Giove addirittura nel caso dello stesso Armensio. Andare a vedere la cantata è anche un’esperienza di esegesi delle fonti in questo senso, di tuffo nella mitologia, nella cristianità, nel sacro e ovviamente nel meraviglioso profano.
Non va dimenticato che “La Cantata dei Pastori”, commissionata dai Gesuiti nel 1698 all’abbate Perrucci era originariamente uno spettacolo liturgico di quattro ore e il solo Razzullo non bastava a intrattenere il pubblico napoletano, che “rapì” l’opera e vi introdusse Sarchiapone, figuro più divertente che diede vita anche alla voce della popolazione. Peter Burke parlava di cultura alta e cultura bassa, “La Cantata dei Pastori” è appunto un esempio circolare di comunicazione tra questi due mondi che dalla loro interazione fanno nascere ogni anno qualcosa di nuovo ma sempre “miracolosamente” uguale nel tempo.
Note sulla messinscena
La messinscena è stata ricca di spunti interessanti. Le musiche – curate dal maestro Carmelo Columbro ed eseguite da undici straordinari elementi diretti dal maestro Giorgio Mellone – hanno valorizzato molto il palco voci, soprattutto nelle corali, dove era possibile distinguere perfettamente le timbriche di ogni interprete. I musicisti poi hanno deliziato il pubblico con effetti sonori a tempo di recitazione per tutta la rappresentazione.
Il pregio delle scenografie curate dal maestro Tonino di Ronza è stato quello di sembrare invisibili, i cambi scena erano impercettibili e quando uno spettacolo fa sembrare semplice anche il più articolato cambio scena ha sicuramente vinto. Forse il drago, diverse volte menzionato in scena avrebbe potuto avere più visibilità, e anche l’ingresso del diavolo non è mai avvenuto dalla botola sotto palco come successo in passato, ma questa è un’altra storia. Le luci erano strutturate in maniera classica, con molti puntamenti fissi, gelatine colorate sia per i proiettori esterni al palco, sia per le strade e questo ha conferito grande senso di magia, favola, sogno in scena, portando lo spettatore con facilità all’interno dell’apparato narrativo.
Il cast
Il cast è stato molto performante. In occasione della prima, come sempre, si prendono indicazioni anche per oliare i meccanismi, però bravi son stati gli interpreti a mostrarsi pronti in ogni occasione. Tra le voci femminili ha colpito molto quella di Maria Letizia Gorga (Zingara/Gabriello) e tra quelle maschili Enrico Vicinanza (Ruscellio). Con destrezza si sono attestati su tonalità più gravi, onde portare la voce al pubblico e in generale assecondare il dark color canoro de “La Cantata dei Pastori” del maestro Peppe Barra, che ne ha fatto ormai il marchio di fabbrica.
Diverso è stato per la recitazione, meno cadenzata anche quando in rima, e più vicina ad uno stile contemporaneo, ma sempre ben fruibile dal pubblico. In generale tutti gli interpreti sono stati all’altezza, ricordiamo ancora Patrizio Trampetti (Cidonio/Diavolo Oste), Francesco Iaia (Demonio), Francesco Viglietti (Armenzio), Chiara Di Girolamo (Maria Vergine), Andrea Carotenuto (Giuseppe), Ciro Di Matteo (Diavolo mangiafuoco) e Giuseppe De Rosa (Benino).
Un particolare plauso al corpo di ballo composto da Amina Arena, Marica Cimmino, Claudia Curti, Sara Anna Cammisa, Michela Maraniello sempre puntuali nei loro interventi. Hanno gestito bene anche il gravoso compito di effettuare prese solo fra donne, come indicato dalle mai banali ma molto espressive coreografie di Erminia Sticchi. I costumi erano di Annalisa Giacci e ci hanno ricondotto nel mondo del presepe di cui parlavamo all’inizio.
Un augurio per il teatro in Italia
Un mondo in cui il popolo come Benino si desta e vede la luce, si avvicina alla cultura, coltiva l’amore per la tradizione religiosa e la famiglia. In un’unico momento torna a vivere ogni anno. Questo spettacolo non è solo l’augurio di Natale delle migliori maestrìe, non è solo il saluto ogni anno della famiglia Barra. È soprattutto l’auspicio che questo patrimonio immateriale dell’Unesco possa sempre vivere, senza dover chiedere ospitalità, e che anzi i teatri facciano a gara per ospitare un lavoro così bello, così complicato, così ricco di particolari. L’auspicio di avere allestimenti sempre più importanti per rimettere il teatro al posto che merita da sempre nella scala dei valori culturali dell’umanità.
Bellissimo articolo per uno stupendo spettacolo. Complimenti a tutti.