
Solo intorno agli anni 60-80 dell’Ottocento, sorprendentemente, si comincia a registrare una massiccia presenza di voci nel giornalismo e nella letteratura femminile italiana. Si tratta di un fenomeno di ampia portata che si spiega con ragioni socio-culturali.
La letteratura femminile nell’Ottocento italiano. Donna e pseudonimia
La diffusione di riviste come “La donna”, fondata nel 1868 da Gualberta Beccari, contribuì senz’altro a incentivare le donne alla scrittura e a dar loro visibilità. Difatti per lungo tempo era stata data loro la possibilità di scrivere unicamente lettere, redigere diari o limitarsi a scrivere entro i limiti di uno spazio privato. Ancora una volta le donne erano costrette a comprimersi, a ridimensionarsi rispetto al mondo, negando l’espressione di sé e della propria soggettività.
Sole, abbandonate e sconsiderate, le donne cominciano a vedere nella scrittura la chiave di un’uscita segreta, una sorta di lasciapassare al loro “sentire”, a ciò che di più profondo e delicato custodiscono nella propria intimità e che sono pronte a raccontare. Di qui una sorta di “ebbrezza”, che unita alla mancanza di un’istruzione regolare e alla scarsa conoscenza di regole linguistiche, relega la maggior parte della letteratura femminile in spazi angusti e marginali. É così che il timore di un giudizio critico e il bisogno di tutelare se stesse dall’invadenza esterna spinge molte donne ad adoperare uno pseudonimo, inteso come una maschera utile a calcare il palco della letteratura, da tempo a loro interdetto.
Ma quale era il vero volto di questa schiera di escluse? Si tratta in massima parte di signore e signorine dalla scarsa istruzione scolastica, costrette a vivere esistenze grigie e monotone entro i confini di case paterne o dimore coniugali. Nella cupezza di un’esistenza piatta e priva di stimoli, si ritagliano del tempo per dedicarlo alla lettura, che alimenta la loro voglia di gridare. Scrivere diventa per la donna un vero e proprio atto di insubordinazione, rivoluzionario; per procedere in questa direzione bisogna reinventarsi, adottando uno pseudonimo all’occorrenza.
Gli scritti di Neera: “Una giovinezza del secolo XIX” e “Teresa”
Primo polo di attrazione e aggregazione per molte donne è senza dubbio Milano. È proprio qui che avviene, infatti, «un’inaspettata convivenza delle industrie del ventre con le industrie dello spirito». Di maggior successo tra tante è – senza dubbio – Neera (pseudonimo di Anna Maria Zuccari). Orfana di madre a soli dieci anni, viene affidata alle cure di due zie paterne.
Della sua infanzia depressa Neera ha lasciato testimonianza in “Una giovinezza del secolo XIX”, un volume di memorie apparso postumo nel 1919. Neera ripercorre gli smarrimenti dell’infanzia e le crisi dell’adolescenza, i tragitti incerti di una formazione improbabile, che le era stata negata più volte. Nella letteratura femminile Neera fa leva soprattutto sul doppio della sua personalità, scissa tra la monotonia di un’esistenza tranquilla legata ai lavori di cucito, e il bello delle fantasia inesauribile sempre pronta a inventarsi nuovi mondi possibili.
Nel romanzo “Teresa” del 1886, Neera riesce a rendere appieno la condizione tipica delle donne del suo tempo, costrette al soffocamento in case paterne e coniugali e prive di stimoli, luoghi che finivano per spegnere l’ardore tipico, quello insito nell’animo di una donna. La storia di Teresa si svolge nell’umbratile paese di Casalmaggiore, nella casa paterna, quella in cui l’emarginazione della donna è scandita anche dalla suddivisione degli spazi interni: lo studio e il ginecèo, in cui le donne cuciono, ripassano il bucato, tengono i conti della spesa.
Emarginata anche rispetto alle sorelle più vivaci, Teresa è il prototipo della zitella, condannata a non vivere l’esperienza della maternità. Innamoratasi di un aspirante giornalista, trova nel rifiuto di suo padre al loro matrimonio la condanna a dissipare i propri giorni nella vuotezza di quella casa. Morto il padre, trova il coraggio di varcarne la soglia e – noncurante dei giudizi altrui – parte per raggiungere l’amato ormai malato.
Essere donna è un atto di coraggio nella letteratura femminile di Ersilia Majno
Ersilia Majno, fervente emancipazionista e fondatrice dell’Unione femminile italiana, riconobbe il contributo di Neera alla condizione femminile.
«É con profonda commozione che io prendo la penna per scriverle […] perché ella sappia che le nostre vite possono ben essere diverse, ma che l’autrice di “Teresa” ha e avrà sempre nell’animo di ogni donna che sente e che pensa un culto di ammirazione e d’amore» – Lettera di Ersilia Majno a Neera
Ammirazione, amore e solidarietà sono i sentimenti che tengono unita la famiglia delle donne. Donne che tutti i giorni si svegliano e trovano il coraggio di esserlo, in barba ai dettami che impone la società.
Siamo donne se mettiamo al mondo un bambino, ma lo siamo anche senza. Se ci occupiamo delle faccende domestiche, ma lo siamo anche facendo carriera. Siamo donne se decidiamo di trascorrere il resto della nostra vita con un uomo, ma lo siamo anche se scegliamo di restare sole con la nostra intimità più profonda. Siamo donne se portiamo i capelli lunghi e le gonne, ma lo siamo anche con i pantaloni larghi e i capelli corti. Con i tacchi a spillo e senza: tutte le volte che scegliamo di esserlo. Siamo donne quando troviamo il coraggio di non vivere secondo gli standard sociali.