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La natura e la vita quotidiana di Marco Astegiano. Libertà che sfugge

By Francesca Castellano
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La natura e la vita quotidiana di Marco Astegiano

“La natura e la vita quotidiana” è il primo libro pubblicato dell’esordiente scrittore Marco Astegiano. Si tratta di una raccolta di poesie che, camminando lungo il medesimo filo conduttore, risulta divisa in due sezioni: la Natura e la Vita Quotidiana.

“La natura e la vita quotidiana” di Marco Astegiano. Libertà che sfugge e Morte che incombe

La prima sezione della raccolta risulta imbevuta di un senso di libertà perduta mescolato a quello di possederla. Un desiderio per il quale si annaspa, che si prova a raggiungere ad ogni costo, ritrovandosi – tutte le volte – di fronte all’ostacolo insormontabile della morte.

«Tutto è finito: vita, oblio, silenzio nella landa, / solo il battito di mille cuori / mentre due secche mani annaspano nel gelo / per ritrovare la luce persa per sempre / testimoni di una natura crudele / e nulla più.»

Dall’ultima strofa del componimento “Duello tra renne” è possibile desumere in maniera palpabile il gioco dei contrasti sotteso all’intera raccolta poetica. Anime che annaspano per recuperare la luce persa per sempre, soppiantata dal silenzio gelido della morte, di cui la natura si fa portavoce nella prima sezione. Ritroviamo i medesimi contrasti espressi in ogni forma. In maniera metaforica, per esempio, ricorrono i mesi dell’anno come termine di paragone; il freddo invernale che spazza via il battito vivo dei cuori si accompagna – per la sua negatività – ai mesi di ottobre e di novembre.

«E’ la nebbia di ottobre: / nulla impalpabile, vuoto, esanime. / Stillano vapori: / volo leggero di ectoplasmi incolori.»

Tuttavia, la libertà si fa forte e ricorre più volte aleggiando tra i componimenti in vesti metaforiche, come quella di un cristallo di neve in un componimento poetico che recita.

«Dall’infinito ti posi ogni dove / e ogni dove muori, / cristallo di neve.»

Il mondo animale e naturale

E della natura, come imprigionati nelle sue viscere profonde, sono menzionati tutti i suoi componenti animali: il salmone, che libero dalla sua prigionia primordiale riesce a risalire in superficie per godere della luce; la talpa e il desiderio ottimistico di accompagnarla a vedere la luce, fuori dal fango sotterraneo in cui ha vissuto; il cavallo e il rifiuto di domare galoppi che conducono verso l’ignoto; il topo e l’invito a volgere lo sguardo indietro, verso il candido bagliore della luna per trarne un sospiro di sollievo; il merlo che, tra tutti il più temerario, del gelido gennaio se ne infischia e intona fiero il suo flauto al tepore della primavera; lo stormo di anatre, in volo verso una tiepida alba; i gabbiani, che si alzano in volo per solcare un ignoto oceano di vita; il coccodrillo, che soffoca le grida e poi solo, nel silenzio della sua corrente fangosa. Tra tutti gli animali intrappolati dalla natura ci sono gli scarafaggi, che a parer mio risultano essere metafora dell’uomo sulla terra.

«Scarafaggi artificiali/ intrappolati su tele nere, fibrose:/ vittime consapevoli di un invisibile aracne dormiente. /Escreto da fetide fogne mobili, / condensato di stress / si libra nel cielo, / germe di morte.»

Forse, in questa visione dannatamente pessimistica noi tutti siamo scarafaggi artificiali. Intrappolati nelle tele nere della tecnologia e dell’inquinamento di cui siamo portatori, siamo vittime inconsapevoli di un aracne dormiente più potente di ogni altro: la natura che abbiamo deturpato, la reale portatrice del germe di morte.

La natura e la voglia di rinascere

Se negli animali anela il brivido di morte che incombe e tutto rende impotente, nella descrizione degli elementi naturali del mondo Marco Astegiano sembra più indulgente. Lascia trapelare quell’alone di speranza e d’ottimismo che è l’unica cosa che ci spinge ad andare avanti:

«Bulbi: / gocce di primavera nel gelo dell’inverno, / germi di vita nascosti sotto la terra scura, / urne preziose custodi di ciclica rinascita.»

Ritorna la metafora dei mesi dell’anno, per la prima volta utilizzata con un’accezione positiva. Gocce di positività incentrate nei mesi primaverili che, fieramente, fronteggiano il gelo dell’inverno.

«Ritrovo me stesso/ nella solitudine, / come la terra ritrova la pace con il Cielo / su di una strada di sette colori: / l’arcobaleno»

È questa poesia a potersi considerare il vero compendio di tutta la prima sezione. L’uomo riesce a ritrovare se stesso in un elemento di quella natura da cui tanto rifugge: l’arcobaleno con i suoi colori, che dona pace interiore.

“La natura e la vita quotidiana” di Marco Astegiano. Amore perduto

“La vita quotidiana” è la seconda sezione in cui è divisa la raccolta. Il filo conduttore, sotteso ai componimenti poetici analizzati fino a questo momento, sembra allungarsi fino a toccare i meandri della vita quotidiana, intesa nella sua componente più profonda. Una vita quotidiana che continua ad essere dipinta sullo sfondo della natura, con il frequente ricorso di esempi tratti dal mondo animale.

«tutto intorno solo querule formiche/ succubi di una scia fatale / tra fango, briciole e dolore.»

In questo mesto grigiore di vita e di anime oppresse si fa spazio un tema prima d’ora non toccato: l’amore. Anche in queste circostanze, l’amore è inteso nella sua componente più cupa, non come inizio gioioso di unione, ma come fine e tradimento, come un amore respinto che provoca sofferenza.

«Amore finito: / quel che resta di un temporale / estivo, travolgente, sublime.»

L’amore, quello perduto che librandosi nel cielo provoca tedio e solitudine.

La morte e la solitudine

“Il germe di morte“ menzionato nella prima sezione, torna pungente nelle successive pagine, mescolandosi all’incubo del suo suono, che seguita il passo umano. La vita dell’uomo è paragonata a un relitto ligneo attraccato al mare del tempo, e in quanto tale destinato a una fine lenta e inesorabile. Pagine imbevute di un sorriso che si scaglia ipocritamente contro il muro della depressione, di un pianto mai nato ma profondamente voluto, quasi come consolazione di una situazione inconsolabile. Non mancano ossimori, uno tra tutti riassume al meglio la tematica di fondo che attraversa l’intera raccolta.

«Bagliori di tenebra, / una colonna infame di bambole di ceramica / suonava una marcia funerea di seguito al mio passo. »

“Bagliori di tenebra” trasuda paura e tremore, fine e oblio come inevitabile capolinea dell’esistenza, che tuttavia si lascia consolare da quei bagliori di luce che attraversano l’intera raccolta, come desideri di libertà e luce che soltanto una grande forza di volontà può conquistare.

«Vorrei
riempirmi di nulla per diventare tutto.»

Termina in questa maniera “La natura e la vita quotidiana” di Marco Astegiano, con un desiderio di inizio e di fine, con una incapacità sostanziale di chiarezza: la rappresentazione concreta della nostra esistenza.

Author

Francesca Castellano

Nella vita insegno e mi perdo tra letteratura, cinema e poesia. Mi piace scoprire e adoro la compagnia delle persone tanto quanto una buona dose di solitudine. Mi piace assai 'a pizza e sono innamorata di Totò, Eduardo e Troisi.

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By Francesca Maria Zimmardi
Alda Merini
© Giuliano Grittini

Sterminata è la produzione letteraria di Alda Merini. È riuscita a trasformare la triste esperienza del manicomio, che ha intervallato la sua vita, in cruda e drammatica poesia.

«Sono nata il ventuno a primavera,
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar la tempesta.»

Alda Merini attraverso una vita di sofferenze

La sua è un’infanzia di guerra, l’esperienza del terrore delle bombe e della casa distrutta. Ma anche un inizio della vita divisa tra l’affetto di un padre colto e sensibile, che la avvia alla lettura ed allo studio, e quello di una madre distante, pragmatica, che vede per lei solo un futuro di moglie e di madre. Iniziano allora le prime crisi mistiche, il cilicio, le messe, il desiderio di farsi suora, osteggiato dalla madre che invece la iscrive alla scuola di avviamento al lavoro. Intanto le prime esperienze poetiche, i versi apprezzati e recensiti dal poeta e critico Giacinto Spagnoletti, ma la giovane poetessa si scontra con la realtà di un padre che, anziché sostenerla, straccia la recensione di Spagnoletti perché la poesia “non dà pane”.

Nel 1947 il primo approccio con la malattia mentale , il ricovero nella clinica Villa Turro a Milano dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Inizia il calvario di Alda che in seguito la condurrà a diversi ricoveri in manicomio, la “croce senza giustizia” che peserà come un macigno sulle sue spalle ma che paradossalmente aggiungerà nuova linfa poetica.

Il matrimonio con Ettore Carniti, operaio e sindacalista, nel 1953, rappresenta una via di fuga dall’amara realtà domestica. Infatti ebbe a scrivere «sono andata col primo che mi è capitato perché non ce la facevo più». Ma fu anche il dipanarsi di un amore grande e tormentato che tra un ricovero in manicomio a l’altro le darà quattro figlie.
Anche la maternità per la Merini è sofferenza, incapacità di amare nel modo giusto, tormento interiore. Le figlie infatti le saranno tolte e cresciute da altre famiglie.

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La sconvolgente esperienza dell’ospedale psichiatrico che segnò la sua vita fu anche all’origine di quello che la scrittrice e critica letteraria Maria Corti definì il suo capolavoro: “La Terra Santa” le varrà nel 1993 il Premio Librex Montale. Con l’editore Vanni Scheiwiller pubblica il suo primo libro in prosa, “L’altra verità. Diario di una diversa”, nel quale tratteggia con squarci esasperati, ma anche teneramente malinconici, i suoi anni di manicomio, i tormenti di una reclusione alienante, le esperienze sue e dei compagni di pena e sofferenza.

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Ancora tanto si potrebbe scrivere sulla vita, sull’oceanica produzione letteraria, sulla poetica, anzi sulle tante poetiche di Alda Merini. Un’anima irrisolta – come lei si riteneva – ma che ha vissuto pienamente ogni gioia, ogni dolore, ogni innamoramento, ogni delirio, germinandolo nell’unione tra l’inchiostro e la pagina.

Mastro-don Gesualdo e Il Piacere. Verga e D’Annunzio vis a vis

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Il 1889 è l’anno che vede la pubblicazione di due grandi testi della letteratura italiana: il “Mastro-don Gesualdo” di Giovanni Verga e “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio.

‘Mastro-don Gesualdo’ di Giovanni Verga e ‘Il Piacere’ di Gabriele D’Annunzio: due romanzi agli antipodi

Già al più superficiale livello narrativo i due romanzi appaiono agli antipodi. D’Annunzio racconta di un giovane e raffinato intellettuale, proveniente da un’illustre e ricca famiglia. Verga – al contrario – presenta l’ascesa sociale di un operaio che con il duro lavoro e una profonda dedizione è riuscito ad occupare una posizione egemonica nella società locale di appartenenza, tanto da potersi arrischiare in una serie di speculazioni economiche. Proprio come il profilo dei personaggi, risulta completamente diversa anche l’ideologia che muove le azioni degli stessi. Lo scrittore siciliano presenta una descrizione feroce delle motivazioni socioeconomiche che animano i conflitti interpersonali e collettivi. Quello abruzzese, invece, si concentra unicamente sull’introspezione di un giovane uomo dotato di notevoli qualità artistiche.

«Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte cose belle e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare di eletta cultura, di eleganza e di arte. […] L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. »

Questo ritratto rappresenta, dunque, l’eccellenza del protagonista dannunziano. Andrea Sperelli proviene dall’antica nobiltà meridionale, e possiede alcune qualità che lo distinguono dal grigiore contemporaneo.

«Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”».

Alla vita considerata come una miscela di qualità raffinate, si contrappone, però, la vita determinata dalle condizioni materiali, che è ciò su cui si concentra la scrittura verghiana; al primato dell’arte si affianca il primato della “roba”, che è una specifica posizione ideologica verghiana. Da muratore ad accaparratore di beni demaniali, fino a diventare usurpatore di un sistema di potere. È così che può essere riassunta l’intera carriera di Gesualdo, che dimostra di meritare sul serio l’ossimorico “mastro-don” che gli viene conferito sin dal titolo dell’opera.

La divergenza cui abbiamo fatto notoriamente cenno fino a questo momento, si può estendere anche a livello stilistico. Se D’Annunzio ne “Il Piacere” aveva fatto ricorso a tutte le sue qualità formali di colorito e di evidenza, indulgendo a troppi “eccessi di forma e di esteriorità”, con la preziosità del lessico e il frequente gusto dell’arcaismo, Verga tende a differenziare linguisticamente i personaggi mano a mano che si rappresentano ambienti più evoluti e complessi. Il suo, dunque, è uno stile linguistico che non presenta caratteri standard e costantemente elevati, ma si adatta alla realtà effettiva dei personaggi raffigurati.

La rappresentazione della società

Il progetto verghiano – come attestato anche dal titolo – prevedeva il passaggio dalla lotta per i bisogni materiali alla vera e propria vanità aristocratica. A mostrarlo è il titolo ossimorico di cui è fregiato il protagonista. La rappresentazione della realtà sociale è dunque obiettivo fondante della produzione di Giovanni Verga, che si adatta a tutte le svariate sfaccettature della stessa. Le cose cambiano con D’Annunzio che, con la pubblicazione de “Il piacere”, proponeva una rappresentazione del mondo aristocratico visto dal di dentro, con i suoi riti mondani, con le sue falsità, con i suoi “mezzi sentimenti” che possono trasformarsi in perversioni profonde.

La struttura narrativa del romanzo dannunziano costituisce un’altra via rispetto a quella costruita da Verga. Lo scrittore abruzzese, difatti, rifugge da ogni delega al mondo rappresentato, garantendo al suo narratore un saldo controllo della vicenda narrata. Allo stesso tempo, il narratore dannunziano mostra una certa sintonia stilistica con il protagonista e il suo mondo, al punto da lasciare intravedere un comune senso di appartenenza.

1 Comment
    Luisa Casetta says:
    Luglio 7th 2020, 6:56 am

    Eh bravo il mio compagno di scuola. Mi ha emozionato leggere di te. La bellezza esiste e tu ne sei la prova. Continua così.

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