
Elliott Erwitt è il fotografo che ha fatto dell’ironia la sua cifra stilistica. Cani dalmata con occhiali da aviatore, ombrelli piegati dal vento, baci rubati dagli specchietti retrovisori delle auto: il catalogo fotografico dell’artista è davvero sconfinato ma, sebbene abbracci un ventaglio di generi e soggetti considerevole, i suoi scatti sono sempre assolutamente riconoscibili. Tutto il suo lavoro infatti è percorso da un sottile fil rouge –una spensierata ironia– che riconduce ogni foto al suo formidabile obiettivo.
«Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente. Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto. Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo.»
Attraverso le opere di Elliott Erwitt è possibile andare alla scoperta di mondo spensierato, che non si prende troppo sul serio e preferisce ridere piuttosto che soffermarsi sulle brutture della vita.
La prima Leica e i lavori con la Magnum
Erwitt nacque a Parigi sul finire degli anni ’20. Dopo aver vissuto gli anni della fanciullezza in Italia, dovette lasciare l’Europa a causa delle leggi antisemite, condividendo il triste destino di molti suoi altri colleghi ebrei. Giunse negli Stati Uniti e qui, a soli 14 anni, scoprì una viscerale passione per la fotografia acquistando la sua prima Leica. Il lavoro di freelancer per importanti riviste fu per lui un importante trampolino di lancio, ma la sua carriera esplose esponenzialmente quando entrò a far parte dell’Agenzia Magnum. Collaborare con l’agenzia fotografica più famosa del momento, e quindi con i più grandi maestri della fotografia del ‘900 – Robert Capa ed Henri Cartier-Bresson, per citarne alcuni – fu per lui una preziosissima opportunità di crescita.
Da fotografo militare dell’esercito degli Stati Uniti, inviato nel mondo a documentare la difficile fase storica della Guerra Fredda, arrivò a ricoprire la carica di fotografo ufficiale alla Casa Bianca. Durante il suo mandato ebbe il delicato compito di registrare i funerali del presidente J. F. Kennedy e l’iconica foto che immortala la lacrima di Jacqueline intrappolata nel suo velo nero ha davvero commosso un’epoca!
I lavori in cui riuscì ad approfondire e a dare maggiormente sfogo alla sua visione del mondo – ironica e molto confidenziale, burlesca ma mai dissacrante – furono tuttavia quelli realizzati al di fuori dai canali istituzionali.
I cani di Elliott Erwitt. La vita dal punto di vista canino
Tra i suoi soggetti preferiti compaiono certamente i cani: a loro dedicò addirittura 4 album! Si avvicinò per la prima volta a questo soggetto dovendo sviluppare l’idea per una pubblicità di calzature femminili. Pensando che fossero i cani, più delle persone, a relazionarsi frontalmente con le scarpe dei loro padroni, decise di realizzare lo shooting simulando un punto di vista canino. Abbassò vertiginosamente l’inquadratura della camera e, tagliando la modella ad altezza ginocchia, rese i veri protagonisti degli scatti quei simpatici animali a quattro zampe.
Una volta scoperto il loro potenziale fotogenico non li abbandonò più e li ritrasse in una miriade di situazioni diverse, sia in pose favolose, ironizzando sui ritratti delle grandi dive del cinema, sia nella spontaneità della loro indole canina. Spesso per suscitare le loro reazioni più buffe cercava di spaventarli con suoni o movimenti improvvisi: ed ecco cani che balzano in aria, che ringhiano o che sfoggiano il loro sguardo più sgomento!
Erwitt era dell’opinione che i cani assomigliassero ai loro padroni e a tal proposito nessuno scatto è più eloquente di “Bulldogs”. In questa fotografia davvero singolare grazie al gioco di prospettive realizzato dall’autore, un uomo con la faccia di cane siede in ciabatte sui gradini della propria abitazione, in compagnia del suo bulldog. L’artista ha raccontato di come questa scena, a metà tra il mitologico e l’esilarante, gli si fosse manifestata davanti passeggiando per il proprio quartiere e che non dovette far altro che immortalarla.
La poetica dell’osservazione
Elliott Erwitt era solito girovagare per la città, con macchina fotografica a portata di mano, per osservare lo spettacolo che la vita gli proponeva. L’osservazione era infatti un punto fermo della sua poetica e uno strumento indispensabile per cogliere i reali sentimenti dietro le azioni di ogni individuo.
«Puoi trovare immagini ovunque. Devi solo fare attenzione a ciò che ti circonda e sentire interesse per l’umanità e la commedia umana.»
Il porsi in maniera aperta alle eventualità della vita, non andando alla ricerca di uno scatto perfetto, ma aspettando che un’immagine significativa si manifestasse ai suoi occhi, ha fatto in modo che molti dei suoi capolavori fossero il risultato di situazioni assolutamente casuali e accidentali. Uno di questi è certamente “Maja vestida e Maja desnuda”, realizzato durante uno dei suoi viaggi a Madrid. L’artista sistemò la macchina davanti le opere del grande Goya e attese che qualcosa accadesse. Non dovette aspettare molto: quando tutti gli uomini si accalcarono davanti alla Maja desnuda, lasciando l’unica donna ad ammirare la Maja vestida, fu chiaro che la magia era compiuta.
«Quando è ben fatta, la fotografia è interessante. Quando è fatta molto bene, diventa irrazionale e persino magica. Non ha nulla a che vedere con la volontà o il desiderio cosciente del fotografo.»
Frutto della casualità più fortuita è anche “California Kiss”, scatto inizialmente sottovalutato dallo stesso Elliott Erwitt e per questo pubblicato solo a distanza di vent’anni. Mentre l’artista compiva un tranquillo giro fotografico sulle spiagge della California, vide una macchina da lontano. Gli si avvicino e vide al suo interno due innamorati che, sullo sfondo di uno splendido tramonto sul mare, si godevano la loro reciproca compagnia. Questo scatto memorabile non solo è una delle sue opere più famose, ma nel tempo è diventato rappresentativo della spensieratezza degli anni ‘50.
Elliott Erwitt dà la parola ai bambini
I bambini di Elliott Erwitt sono resi protagonisti per la loro imprevedibilità e schiettezza. Li ritrasse con estrema delicatezza, non trattandoli mai con sufficienza, ma ascoltando semplicemente la loro voce. Tra la miriade di scatti dedicati loro -ritratti familiari, bimbi che giocano, curiosi ragazzini che premono il viso contro i finestrini delle auto- quello preferito dall’artista è il ritratto del sorridente ragazzino di Pittsbugh che si punta una pistola giocattolo alla tempia.
Realizzò questa foto quando aveva circa 20 anni, in occasione di un progetto ideato per monitorare i cambiamenti della città agli inizi negli anni ’50. La complessa stratificazione di significati evocata dall’immagine la rende agli occhi del fotografo un’opera perfetta, ossia un dono che non deve essere nè spiegato nè analizzato, ma solo colto e apprezzato.