
Lunedì, pomeriggio.
Dovrei esser un bugiardo se non dicessi più di quanto ho detto nella lettera di questa mattina, specie davanti a te alla quale posso parlare liberamente come a nessun altro, perché nessuno è mai stato dalla mia parte, consapevole e volente come te, nonostante tutto, nonostante tutto.
Le più belle fra le due lettere (ed è tutto dire, perché nel loro complesso e quasi in ogni riga sono la cosa più bella che mi sia toccata nella vita) sono quelle nelle quali dai ragione alla mia “angoscia” e nello stesso tempo cerchi di spiegare che non la devo avere. Infatti anch’io, anche se talvolta ho l’aria di essere un corrotto difensore della mia “angoscia”, le do probabilmente ragione nel profondo, anzi sono fatto di essa ed essa è forse la mia parte migliore. E siccome è la mia parte migliore, è forse la sola cosa che tu ami. Infatti, che altre cose potrei avere molto amabili? Questa però è amabile.
E se un giorno domandasti come mai abbia potuto chiamare “buono” il sabato con l’angoscia nel cuore, la spiegazione non è difficile. Siccome amo te (“e ti amo dunque, o donna tarda a capire, come il mare ama un sassolino sul fondo, proprio così il mio amore ti inonda – e possa io essere ancora accanto a te il sassolino, se i cieli lo permettono”), amo il mondo intero, e di questo fa parte anche la tua spalla sinistra, no, fu prima la destra e perciò la bacio se mi piace (e tu sei tanto gentile da scostarvi la camicetta), e di esso fa parte anche la spalla sinistra e il tuo viso sopra di me nel bosco, e il tuo viso sotto di me nel bosco, e il riposo sul tuo petto quasi nudo. E perciò hai ragione quando dici che già eravamo uno e io non ne ho alcuna angoscia, ma questa è la mia unica felicità, unico orgoglio, e non lo limito affatto al bosco.
Ma precisamente fra questo mondo diurno e quella “mezz’ora a letto”, della quale una volta hai scritto con disprezzo come d’una cosa da maschi, è per me un abisso che non posso valicare, probabilmente perché non voglio. Di là, dall’altra parte è un fatto notturno, un fatto che in ogni senso riguarda la notte; di qua è il mondo e io lo possiedo e ora dovrei balzare di là nella notte per prenderne possesso un’altra volta. Si può prendere possesso di una cosa un’altra volta? Non è come perderla? Di qua è il mondo che possiedo e io dovrei passare di là per amore di una raccapricciante magia, di una ciurmeria, di una pietra filosofale, di un’alchimia, di un anello fatato. Via tutto ciò, ne ho un terrore tremendo.
Voler afferrare ciò in una notte per magia, in fretta, col respiro grosso, ossessionato, senza via d’uscita, voler afferrare per magia ciò che ogni giornata concede agli occhi aperti! (“Forse” non si possono aver figli in altro modo, “forse” anche i figli sono magia. Lasciamo aperta la questione.) Perciò appunto sono tanto grato (a te e a tutto) e così è quindi che accanto a te sono sommamente tranquillo e sommamente inquieto, sommamente schiavo e sommamente libero, per la qual ragione, dopo questa intuizione, ho anche rinunciato a tutto il resto della vita. Guardami negli occhi! Soltanto per il tramite della signora K. vengo dunque a sapere che i libri sono passati dal tavolino da notte alla scrivania. Prima avrei dovuto assolutamente essere interrogato per sentire se ero d’accordo con codesto trasferimento. E avrei risposto: no!
E ora ringraziami. Ho felicemente represso la voglia di scrivere in queste ultime righe ancora qualcosa di folle (qualcosa di follemente geloso).
Ma ora basta, ora parlami di Emilia.
– Lettera di Franz Kafka a Milena Jesenskà
Praga, 1920