By Line: gli scritti di Ernest Hemingway per la stampa internazionale

«Per scrivere questo tipo di cose, vi serve una macchina da scrivere. Per descrivere, per narrare, per fare delle osservazioni affascinanti, vi serve una macchina da scrivere. Per ironizzare, per cambiare le carte in tavola, per offrire una lettura rilassante, per scrivere un buon articolo, vi serve della fortuna, due bicchieri e una macchina da scrivere» – Ernest Hemingway

Così scriveva Ernest Hemingway dal Tanganika nella primavera del 1934, e questo basterebbe a ritrarne sia l’uomo che il letterato. Ma noi che amiamo l’arte, vogliamo sapere di più di questa che fu senza dubbio una delle principali figure di tutto il Novecento.

Premio Pulitzer nel 1953 e Premio Nobel nel 1954: se Hemingway sia stato più giornalista o più scrittore, è una questione sulla quale solo in pochi sono rimasti ad accanirsi. Quei pochi che, forse, conoscono poco l’uomo della cui vita proviamo a tracciarne i lineamenti. Una vita che è di per sé romanzo.

Come reporter e corrispondente estero appena maggiorenne a Kansas City, e presto inviato a Chicago, a Toronto, a Parigi tra gli espatriati della cosiddetta “lost generation”, tra Huxley, Joyce, Faulkner, Dos Passos, Pound, Fitzgerald e la Stael. Ancora in Estremo Oriente, e in Europa tra capi di Stato e diplomatici, o ancora nella Germania piegata dall’inflazione tra le due guerre, nell’Italia fascista o nella Spagna dilaniata dalla guerra civile.

Hemingway si impregnò come una spugna dello spirito delle persone e dei luoghi, ne respirò l’aria del tempo che si faceva Storia, e tutto costituì materiale tanto per i suoi articoli quanto per i suoi romanzi.

Tecnica da reporter e stile di romanziere

Nel descrivere ciò che vedeva, al contempo i suoi scritti traducevano le impressioni che avvertiva davanti a ciò che osservava. Se i dettagli erano spesso tralasciati, il quadro nel suo insieme era pur sempre chiaro, perchè ciò che davvero contava per Hemingway era l’insieme. Durante gli oltre 40 anni di attività non cessò mai di utilizzare il medesimo materiale sia per i suoi articoli che per le sue novelle.

«Il primo diritto che possiede un uomo che scrive è quello di poter scegliere cosa pubblicare» – disse nel 1930 al suo biografo, Louis Henry Cohn – «Se ti guadagni da vivere come giornalista, impari il tuo mestiere, scrivi contro il tempo che scorre, racconti di attualità piuttosto che di cose destinate a durare, nessuno è autorizzato a denigrare queste cose e a rinfacciartele quando poi non scrivi nel miglior modo possibile»

Raccontare la pura, nuda e semplice verità come gavetta, come esercizio costante di stile, costituì la vera ricchezza del futuro Nobel per la letteratura. Del resto, già il nostro Leopardi sosteneva che la sintesi fosse la spia del vero genio. E cosa sarebbe, dunque, il bel giornalismo se non la sintesi della bella letteratura? 

Hemingway fece il suo apprendistato di scrittore mentre sfornava articoli per i giornali, lavorando in modo tale da guadagnarsi quel denaro che in seguito gli avrebbe permesso di arrivare dove voleva. Ma oltre alla contingenza del materialismo di sopravvivenza, nessuno può negare che il suo entusiasmo, la sua sensibilità e la sua immaginazione resero da sempre i suoi scritti, dal primo all’ultimo, ben più che semplici testi di circostanza.

Ernest Hemingway viaggiando e narrando

E la conferma di queste sfumature apparirà evidente a chi leggerà i reportage di Hemingway dall’Asia, quando nel 1940 da cronista divenne profeta nell’annunciare che gli Stati Uniti sarebbero stati presto attaccati dal Giappone, e che meglio sarebbe stato non farsi coinvolgere in alcun tipo di guerra; o per chi volesse deliziarsi coi suoi racconti di viaggio al confine tra Svizzera e Germania, nei primi Anni ’30, quando fiutò nell’aria la certezza che nessun tedesco sarebbe rimasto ancora a lungo soggiogato dalla povertà frutto del Trattato di Versailles.

Ernest, il giovane cronista americano innamorato della vita al punto tale da volerne essere non solo spettatore ma protagonista: dalle corride andaluse ai collegi militari cinesi, dai safari in Congo allo sbarco in Normandia, dalle bombe su Madrid alla liberazione di Parigi.

E dopo aver vissuto, e viaggiato, e conosciuto persone e mondi e situazioni, l’abilità profusa nel fotografare per la carta stampata la realtà dei fatti, con frasi stringate ed efficaci, diventa talento nel riuscire poi a romanzare il tutto, elaborando le proprie esperienze per una lettura più intima e complessa, di quelle destinate a divenire grande letteratura. Anzi, è un gran bene per la Letteratura che Mister Hemingway non abbia consacrato la sua vita al lavoro di reporter. Comunque fosse andata, non si può dubitare che qualunque strada avesse scelto si sarebbe sempre piazzato tra i migliori. Fin da giovanissimo cronista di vicende quotidiane, si dimostrò subito perspicace e difficile da manipolare.

Le critiche e le accuse: «Imparare a scrivere, iniziando dalle cose più semplici»

La sua visione si rivelò immediatamente originale e molto personale: vedeva ciò che guardava, compreso ciò che era proibito guardare o ciò che insegnavano a non vedere. Riportava ciò che accadeva realmente, «cercando di imparare a scrivere, iniziando dalle cose più semplici». Anche le critiche alla sua ignoranza in ambito politico o economico sono infondate: basta riprendere i suoi reportage italiani su Mussolini, o quelli tedeschi sull’inflazione reale, o ancora gli articoli stilati durante i molteplici congressi internazionali cui partecipò come inviato di redazione.

Anche le accuse di indifferenza verso la società, che più volte lo colpirono, sono vane: lo stesso Edmund Wilson, celebre critico letterario, lo definì invece come un «barometro della morale, che reagiva ad ogni pressione del clima sociale dell’epoca con una sensibilità senza paragoni», come del resto testimoniano alcuni suoi specifici articoli risalenti agli Anni ’30 e ’40, come “La malattia del potere”, “Riflessioni sulla prossima guerra” e “Un vecchio giornalista scrive”.  E fu lui stesso a raccontare in una delle sue rare interviste personali.

«I libri veramenti buoni sono quelli che risultano più veri di quanto non si sia realmente vissuto, quelli che descrivono tutto ciò che vi appartiene davvero: il bene e il male, la gioia, il rimpianto e la sventura, la gente e i luoghi e il tempo che faceva quel giorno»

Sul piano giornalistico, questi testi sono perfetti. Su quello letterario, sono ineccepibili.

Romanzi e articoli: «Non sogno mai a occhi aperti»

Perché i romanzi e gli articoli di Hemingway sono la sua stessa vita, e nessuno può sminuire la maniera straordinaria in cui seppe approfittare della vita stessa: «Non sogno mai ad occhi aperti», diceva.  E con quegli occhi bene aperti ci ha consegnato lezioni rare e riflessioni eterne. 

Nel 1920 scrive un breve articolo che è una piccola inchiesta per il Toronto Star Weekly. Ha solo 19 anni, Ernest, ma già indaga sul caso dei ripetuti assassini che si verificavano allora in Irlanda. Riesce a parlare con un ex sicario che, dopo avergli raccontato del flusso di migranti dalle più disparate origini che compiono omicidi su commissione solo per sopravvivere, tra il serio e il faceto finisce col confidargli «non ci si può fidare di nessuno». La prosa è scarna, lineare, ma sulle pagine il disegno è quello di un diamante: nessuna correzione fu necessaria in redazione per pubblicare quel piccolo capolavoro.

Nel 1922 è a Parigi, da dove continua a scrivere per lo Star, e invia spaccati di quotidianità che sono feroci critiche allo stato di decadenza della società francese. In sole tre pagine Ernest dipinge la malinconica atmosfera dei caffè parigini, dove le turiste americane risaltano nella folla, tra le altre donne, per la loro ostentata falsa opulenza che già odora di materialismo, il male che inizia a cancellare la poesia di un intero continente.

Ernest Hemingway, la storia e la politica

Nell’aprile del medesimo anno è inviato alla conferenza internazionale di Genova, e qui il taglio politico dei suoi reportage non fa sconti a nessuno. Così se «la delegazione britannica è la meglio vestita», «Sir Gordon, capo della delegazione canadese, è biondo, rubicondo e leggermente a disagio», mentre «il dottor Wirth, il cancelliere tedesco, sembra un suonatore di tuba», «la carriera del primo ministro italiano, Facta, è talmente oscura da avergli valso il soprannome di Ministro dei compromessi» e «Litvinoff, con la faccia di un grosso maiale, capeggia la delegazione russa seguito da Tchitcherine col viso neutro, la barba mal tagliata e le mani nervose».

Nel gennaio del 1923 Ernest è incaricato di scrivere ciò che accade durante la Conferenza di Losanna, dove ancora una volta la sua penna sferza chiunque. E nessuno resta illeso, nemmeno i potenti:

«tutti vogliono vedere Ismail Pacha, ma dopo averlo visto non hanno più alcuna voglia di rivederlo: assomiglia più a un venditore di pizzi che ad un generale turco»; «Mussolini è il più grande bluff d’Europa: a meno che non mi faccia arrestare e fucilare domattina, continuerò a considerarlo come il più grande bluff d’Europa (…) Guardate la sua camicia nera e i suoi guanti bianchi: c’è qualcosa che proprio non va, in un uomo che indossa guanti bianchi e camicia nera».

E i commenti su Mussolini non cessano: «Certo Mussolini non è un Bottomley. Bottomley era un imbecille e Mussolini non lo è, è un grande organizzatore. Ma è molto pericoloso organizzare il patriottismo di una nazione senza essere sinceri, specialmente quando si porta il patriottismo a livelli tali per cui la gente presta il proprio denaro al governo senza interessi».

Anche in questo caso, seppur ancora molto giovane, emerge tutta l’abilità profetica di Hemingway, con un’incisività pari solo al suo altrettanto chirurgico spirito critico, che emerge nel dicembre del 1923 quando scrive un curioso articolo che ha tutto lo stile e la forma di un racconto breve. Ernest concretizza l’idea di girare per antiquari in cerca di vecchie medaglie al valore risalenti alla Prima Guerra Mondiale, senza trovarne, né riesce a vendere ai bottegai le medaglie che lui ha in tasca. La conclusione del pezzo è violenta, nitida e toccante al tempo stesso.

«Potresti vendere una sveglia rotta, ma di certo non una Croce Militare. Potresti sbarazzarti di un’armonica, ma non c’è mercato per una Medaglia di distinta condotta. Potresti vendere le tue vecchie bretelle militari, ma non troveresti mai una Stella al valore: il mercato del valore resta dunque aleatorio»

Lo sportivo, l’amante delle corride e della pesca alla trota iridata, il cacciatore di antilopi e di leoni che egli fu, non fu certo meno performante e infervorato dell’attento osservatore di politica e di economia in un mondo che correva verso la guerra, strappando tutte le promesse del primo dopoguerra.

Hemingway contro la guerra

La sua mordacia trovò terreno fertile quando fu applicata ai racconti di guerra. Ed è proprio in questo genere di narrazione che emerge la maestria indiscussa di Hemingway, anche se proprio l’autore in questione ebbe a dire:

«La guerra vera non è mai come la guerra sulla carta, e le sue narrazioni non dicono poi granchè sulle impressioni che essa ha prodotto» – specificando poi, non senza un certo orgoglio personale – «Ma se volete sapere come stavamo sul nostro anfibio da sbarco il 6 giugno del 1944, mentre occupavamo le spiagge normanne dei settori Easy Red e Fox Green, eccovi il resoconto più fedele che possa mai donarvi».

Dopo aver lavorato per il Toronto Star, Ernest si impegna dal 1933 al 1936 con l’Esquire. Sono gli anni in cui viaggia tra Spagna, Francia e Africa, ma vive principalmente a Key West, in Florida. In una lettera che invia al giornale da Parigi, nel febbraio 1934, Hemingway scrive:

«Il motivo per cui non ci sente bene qui sta nella calma perfetta con la quale tutti parlano della prossima guerra: è ammessa e considerata normale. Molto bene. L’Europa ha sempre avuto delle guerre. Ma noi (americani) possiamo restarne fuori. E il solo modo per restarne fuori è non prenderne parte; per nessun pretesto. Ci saranno molti pretesti, ma noi dobbiamo restarne fuori. Se questi ragazzi vogliono andare in guerra per vedere com’è, o per amore di una nazione, che lo facciano a titolo personale. Ciascuno ha diritto di andare dove vuole. Ma noi, come Paese, non abbiamo nulla a che fare con tutto ciò, e dobbiamo restarne fuori».

Questo basterebbe a fugare ogni dubbio sulla presunta disaffezione di Hemingway per la politica, come qualcuno ha (incautamente) commentato in passato. Proprio a tal riguardo, con toni disillusi, nel 1934 scrive una triste lettera da Cuba all’Esquire:

«Non basta avere un cuore generoso, una testa ben solida, una personalità seducente, un pantalone svolazzante e una certa virtuosità alla macchina da scrivere per sapere dove va a finire il mondo, chi passa la palla, chi commette fuori gioco e chi sono i proprietari. Io non lo saprò mai, perchè ho iniziato troppo tardi e perchè non posso ragionare con calma: ma nessuna storia è scritta onestamente».

Nel settembre del 1944 Hemingway comanda da volontario un manipolo di partigiani francesi, che aiuteranno i generali americani a liberare Parigi dal giogo nazista. Egli stesso prenderà parte alla liberazione di quella che descrive come «la città che più amo al mondo». Di quell’esperienza Ernest invia periodiche relazioni al giornale di cui è allora corrispondente, il Collier’s, lo stesso per cui scriveva anche la sua terza moglie Martha Gellhorn – nonché compagna di incursioni sul fronte spagnolo -.

Appare definitiva la sua lezione a proposito della “disciplina dell’esempio” di cui si fa docente e insieme discente in quei frangenti:

«Quando lavorate con dei combattenti di truppe irregolari, non potete contare su nessun’altra autorità che quella dell’esempio. Finché credono in voi, se sono dei buoni elementi, combattono bene. Non appena cessano di credere in voi, o quando la missione fallisce, allora spariscono»

Il ritiro dalla vita ma mai la sconfitta!

E del senso di rispetto, che dovrebbe essere la base di qualunque relazione umana, Hemingway tratterà anche più tardi, nel 1956, scrivendo saltuariamente per il Look Magazine da L’Havana. Vi si era ritirato dopo i due gravi incidenti aerei di cui fu vittima nel gennaio del 1954 e, oberato dal senso di fatica e disgusto per una società che non corrispondeva più a quanto auspicava per sè, Ernest volle lasciare alcune intime considerazioni alla stampa, dense di una certa innegabile tragicità che fu la firma del suo lungo addio alla vita:

«La compagnia degli imbecilli non è stimolante né arricchente, soprattutto quando avete cercato a lungo di evitarla. Ci sono diversi modi per riuscirci, e ne avete appresi tantissimi. Ma gli imbecilli e gli stupidi, i pedanti, gli asini e i leccapiedi si moltiplicano e, grazie ai nuovi antibiotici, sembra che abbiano acquisito una sorta di ripugnante immortalità, mentre la gente che ammirate muore pubblicamente o anonimamente ogni mese»

Poco tempo dopo questa ultima sua lettera ai giornali, i medici gli diagnosticarono una forte forma di depressione e lo sottoposero a ripetute sedute di elettroshock, a seguito di alcuni gravi episodi di violente crisi maniacali. Il 2 luglio 1961, all’alba, Ernest lasciò questo mondo che tanto aveva amato, per cui aveva combattuto senza risparmiarsi, di cui conosceva genti, paesi e racconti “by heart” (formula che spesso ritroviamo nei suoi romanzi).

Con un colpo di fucile, quello che usava per cacciare i leoni, “Papa” Hemingway si tolse la vita sparandosi in bocca, come già suo padre prima di lui nel 1928. Poco prima di uccidersi, quasi a testamento artistico dell’instancabile guerriero della letteratura che è sempre stato, aveva scritto:

«Fate largo, ragazzi, lasciate che Ernie riprenda la sua macchina. Deve tornare a casa per poter dormire e pensare correttamente e lavorare bene domani»

Ernest, ci manchi. Buon lavoro a tutti noi. 

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