Come ha osservato Alberto Casadei, l’altare su cui la critica ha collocato il Dante-poeta rende estremamente difficile, per noi moderni affamati di umanità, entrare davvero in contatto col profilo non solo aquilino, ma anche profondamente contraddittorio e sfuggente del Dante-uomo.
Quello che gli integralisti dell’accademismo troppo spesso dimenticano, infatti, è che Dante, prima di essere stato un poeta, è stato prima di tutto un Uomo. Ed è proprio a questa dimensione di fragilità, di debolezza e di crudeltà tutte umane, che è necessario riconnettersi, perché opere tutt’altro che accessibili dal punto di vista linguistico possano apparire come delle opere ancora attuali e interessanti agli occhi delle nuove generazioni.
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Il processo contro l’omosessualità di Brunetto Latini dal Canto XV, Inferno di Dante
Il caso più eclatante è sicuramente rappresentato dal Canto XV dell’inferno, canto a cui -come tutti sanno- Dante affida la cronaca del commovente incontro col primo e più importante dei suoi maestri: Brunetto Latini, da lui collocato fra i violenti contro natura per via del presunto peccato di sodomia di cui l’uomo si sarebbe macchiato in vita.
Quello che pochi sanno è che, alla nomina di omosessuale che da quel momento in poi accompagnerà il maestro di retorica, è proprio Dante a contribuire per primo. Formula indirettamente un’accusa che non conosce precedenti davvero significativi e davvero incriminanti -fatta eccezione per un generico riferimento del Villani alle presunte attitudini “mondane” dell’uomo e per alcuni sonetti romantici che avrebbe scambiato con Bondie Dietaiuti- .
Un’accusa infondata
Alla critica ovviamente non è sfuggito il fatto che quella formulata da Dante fosse un’accusa infamante e infondata. Tuttavia pur di non intaccare l’alone di santità di cui da sempre lo ha voluto rivestire, la critica ha tentato di giustificare Dante lanciandosi in una serie di complesse e fantascientifiche argomentazioni. Ora si trattava di un presunto tradimento contro-natura che Brunetto avrebbe perpetrato ai danni della lingua italiana scrivendo in francese, ora della sua scelta contro-natura di servire con la propria attività di filosofo non la sacra istituzione imperiale, quanto l’ingrata comunità fiorentina.
L’idea che Dante potesse aver avanzato quell’accusa al solo scopo di mettere in cattiva luce l’uomo, ovviamente, non è stata presa in considerazione per secoli.
Dante l’ammazza-padri. Come e perché Dante Alighieri uccide i suoi padri letterari
La prima a ipotizzare che Dante potesse aver accusato ingiustamente Brunetto a causa di un sentimento di invidia da lui nutrito nei confronti dell’uomo, è stata Selene Sarteschi. Come ha osservato la studiosa, Dante vuole apparire come il più grande dei poeti e vuole che la Divina Commedia appaia
«come il solo libro in grado di proporre un vero messaggio di salvezza per l’umanità».
Questo suo desiderio di primeggiare a livello artistico, inevitabilmente, fa sì che Dante scriva e agisca in funzione di una logica del superamento. Di volta in volta uccide i suoi padri letterari allo scopo di non contendergli l’amore di una madre comune, ma l’influenza letteraria e politica a cui aspirava solo per sé.
Il complesso di Dante-Edipo
E ad essere sinceri, infatti, Brunetto non è l’unico padre letterario che il Dante-Edipo si mostra freddamente disposto a sacrificare sull’altare del proprio desiderio di affermazione. Un trattamento analogo, anche se meno crudele, viene riservato allo stesso Virgilio, di cui Dante nel XXII Canto del Purgatorio pronuncia allo stesso tempo con Campanella «il più alto elogio» e la peggiore «condanna».
«Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte»
– Dante Alighieri, Purgatorio XXII, vv. 67-69
Si pensi solo al fatto che la Divina Commedia mette in scena un vero e proprio superamento fisico di Virgilio così come di Brunetto. Ne realizza il superamento morale e artistico, al fine di rimarcare tale superiorità. Se da un lato il pagano Virgilio viene seminato alle porte del Paradiso Terrestre dal cristianissimo Dante, il peccatore Brunetto è costretto a seguire l’allievo dal basso per tutta la durata del colloquio. Non solo, a differenza di Dante che viaggia verso una destinazione precisa, lui è costretto all’incessante marcia priva di destinazione in cui si esprime la condanna dei peccatori del suo girone. Qui infatti gli uomini sono costretti a camminare in eterno sotto alla pioggia di fuoco che li sfigura.
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”Brunetto Latini”. Il rivale e l’ideale di Dante
Ma quali sono le ragioni dell’invidia di Dante? Per comprenderlo, si renderà necessario spendere qualche parola sull’uomo che Dante, in gran segreto, venerava e invidiava tanto accoratamente. Ser Brunetto Latini, notaio, maestro di retorica, filosofo e politico che Dante ebbe l’onore di conoscere nella vita reale. Non è certo quello che si può considerare un uomo qualsiasi.
Innanzitutto, per più di 20 anni, Brunetto costituì la massima autorità politico-intellettuale di Firenze, ruolo che a Dante venne precluso dall’esilio. Per giunta -e questo per l’Alighieri dovette essere troppo- fu l’uomo, il poeta, che riuscì ad ottenere il rimpatrio dall’esilio grazie alla sua abilità artistica, concessione che Dante non riuscì ad ottenere mai. Si pensi che, per sua diretta ammissione, Dante Alighieri scrive la Divina Commedia proprio allo scopo di ottenere il rimpatrio!
La «selva diversa» di Brunetto Latini prima di Dante
Sebbene non sia chiaro in quali termini Dante ne sia effettivamente stato l’allievo, il fatto che Brunetto sia stato un importante punto di riferimento, anche letterario, costituisce per noi una certezza. Basti pensare al fatto che la Divina Commedia è un’opera molto meno originale di quanto si possa pensare. Coincide con la riscrittura cristiana e spudorata dell’opera pagana in cui Brunetto Latini aveva già offerto un racconto allegorico-visionario del viaggio da lui intrapreso al fianco di Ovidio, dopo un tragico smarrimento avvenuto in una «selva diversa» (Tes. II, v.78). Un incipit piuttosto familiare, non trovate?
Dante nell’intero canto che gli dedica si mostra internamente scisso tra l’odio che nutre e il rispetto che gli deve, tra il debito maturato nei suoi confronti e il desiderio irriconoscente di prenderne il posto. Finisce inevitabilmente per dare voce all’«odio rivestito di amore» che Massimo Recalcati definisce come il sintomo principale del complesso edipico.
Basti pensare ai due volti che vengono da lui contraddittoriamente e contemporaneamente attribuiti a Brunetto. È visto dall’allievo ora come ideale ora come rivale, ora come «cara e buona immagine paterna» (v. 83) da riabilitare ora come il peccatore dal «viso abbrusciato» (v. 27) da screditare.
La caricatura come arma
Dante mette in cattiva luce Brunetto anche all’interno del canto, dove accanto all’ostentata umiltà e all’esagerata sottomissione dei gesti («non osava», «capo chino» v.43) e delle parole («quanto posso (…) ven preco (…) e se volete vv. 34-36; «e or m’accora» v.82) compaiono tutta una serie di elementi subliminali e caricaturali. In questo modo, per contrasto, realizza un ritratto non proprio lusinghiero dell’uomo.
È il caso ad esempio del gesto da mendicante con cui tira la veste di Dante per attirarne l’attenzione all’inizio del canto, oppure quello della gestualità omosessuale con cui viene impercettibilmente caratterizzato. Per non parlare del numero dei versi a lui dedicati -101 è sintomo numerologico di perfezione mancata- e della corsa goffa e scomposta con cui, alla fine del canto, viene fatto ricongiungere alla compagnia da cui si era allontanato. Non proprio l’uscita di scena dignitosa che ci si aspetterebbe da un uomo del suo calibro!
Dante: sensi di colpa verso Brunetto Latini o dialettica calcolata?
Qualche altra parola prima di concludere andrebbe poi spesa sull’atteggiamento di ossequioso di Dante e sulle lusinghe un po’ troppo affettate che, per tutta la durata del canto, non fa che rivolgere al proprio maestro. Se come scrive Parodi «ogni possibile compenso è offerto da Dante a Brunetto Latini, per averlo condannato all’Inferno», è anche vero che la funzione esplicita del canto è quella di far pronunciare all’uomo la condanna dell’«ingrato popolo maligno dei fiorentini» (v.61) e l’elogio di Dante, da lui incoronato come «dolce fico» tra «lazzi sorbi» (vv. 65-66).
È quindi lecito chiedersi fino a che punto gli elogi riservati al maestro siano da riferire esclusivamente al senso di colpa che Dante nutre nei suoi confronti. Considerata la funzione auto-rappresentativa che il poeta affida al Canto, una componente opportunista e premeditata non sarebbe affatto da escludere. Per rendere credibile il discorso contro l’ingiusto esilio perpetuato dai fiorentini, aveva bisogno che lo fosse anche Brunetto, l’uomo a cui quel discorso viene fatto pronunciare. È quindi chiaro che in quest’ottica, “uccidere” il proprio maestro/padre rischiava di essere controproducente. In fondo lo scopo ultimo della Divina Commedia restava innalzare se stesso, e solo in seconda battuta denigrare l’uomo da cui si sentiva minacciato.
Una capacità di calcolo simile, del resto, da un poeta “umano troppo umano” come il Sommo, saremmo quasi tentati di aspettarcela!