Il Decadentismo è un movimento culturale sviluppatosi in Francia e poi diffusosi nel resto d’Europa tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento. Alla base della sua visione c’è un irrazionalismo misticheggiante, che riprende ed esaspera posizioni già largamente presenti nella cultura romantica.
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Il pensiero decadente: arcane unità e fatali corrispondenze
In seguito alla sua diffusione, viene radicalmente rifiutata la visione positivistica che si stava consolidando secondo cui la scienza poteva garantire una conoscenza oggettiva e totale della realtà e legittimare il dominio dell’uomo sul mondo. Il pensatore artista decadente riteneva invece che la ragione e la scienza non possano fornire la conoscenza effettiva del reale, perchè la verità si cela al di là delle cose, e risiede in una dimensione parallela, misteriosa ed enigmatica. Solo rinunciando a vestire l’abito razionale si può quindi tentare di attingere all’ignoto e al vero.
Il mistero, che si pone perennemente dietro la realtà conoscibile, è l’elemento verso il quale protende l’anima decadente. Secondo la percezione mistica del reale tipica di questo filone di pensiero, tutti gli aspetti dell’essere sono legati tra loro da arcane analogie e corrispondenze che sfuggono alla ragione.
L’identità tra io e mondo, soggetto e oggetto, si fondono al punto tale da rappresentare un’arcana unità. Tale unione avviene al di sotto degli strati superficiali della realtà, sul piano dell’inconscio. La scoperta di quest’ultimo, difatti, è il dato fondamentale della cultura decadente, senza il quale si capirebbe poco o nulla delle sue concezioni.
Malattia, follia, delirio: nuove epifanie sul reale
Se il mistero è dunque l’essenza segreta della realtà – che non può essere colta attraverso la ragione – allora sono altri gli strumenti attraverso cui il decadente può attingere: la malattia, la follia, la nevrosi, il delirio, il sogno, l’incubo, l’allucinazione. Si tratta di stati di alterazione che, sottraendosi al controllo limitante della ragione, permettono di vedere il mistero al di là delle cose, aprendo allo sguardo interiore prospettive ignote che fino a prima non si era in grado di cogliere.
C’è da dire che su questo argomento la letteratura sembra non praticare sconti: risalgono a James Joyce quegli stati di grazia, meglio noti come “epifanie”. Momenti in cui un particolare qualunque della realtà, insignificante alla visione comune, si carica improvvisamente di una misteriosa intensità di significato che affascina, in quanto sembra provenire da un’altra dimensione, come rivelazione momentanea di un assoluto.
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La poetica del Decadentismo italiano in D’Annunzio
Tra i momenti privilegiati della conoscenza per il decadente primo tra tutti è l’arte. Il poeta, il pittore, il musicista, sono considerati sacerdoti di un vero e proprio culto, capaci di spingere lo sguardo là dove l’uomo comune non riesce a vedere nulla.
L’esteta, come bene insegna D’Annunzio, è colui che assume come principio regolatore della propria vita il “bello”, ed esclusivamente in base a questo agisce e giudica la realtà, collocandosi al di là della morale comune. Ogni elemento o atto specifico della sua quotidianità diventa materiale per la realizzazione di una vera e propria opera d’arte. E ciò risulta accomunare tutti quelli che, in virtù delle proprie qualità artistiche, riescono a dipingere la realtà con colori nuovi e fuori dal comune.
L’arte si fa poesia pura, in quanto rifugge dalla rappresentazione storica e sociale chiudendosi in una squisita celebrazione di sé. Il vitalismo superomistico, inteso come esaltazione della pienezza vitale senza limiti e freni, non è che un modo per esorcizzare, in verità, l’attrazione morbosa della morte.
Il Decadentismo pascoliano nel ritorno alla fanciulezza
E dalla tendenza decadente a reagire alla crisi e alla malattia interiore, ha origine un’altra figura tipica della cultura italiana: il “fanciullino” pascoliano. Il rifiuto della condizione adulta, della vita sociale al di fuori del tiepido nido familiare, il regredire a forme di emotività e sensibilità infantili si traducono in un atteggiamento di indagine del mistero.
In un’epoca difficile come quella contemporanea, del resto, appare del tutto confortevole l’esigenza di una regressione verso una forma di coscienza primigenia, che faccia dell’inconsapevolezza l’unica arma per fronteggiare le difficoltà reali della vita.
La figura dell’intellettuale inetto debutta in Fogazzaro
Di grande successo hanno goduto, negli anni, i romanzi di Antonio Fogazzaro, lo scrittore vicentino le cui opere restano significative a documentare il valore del romanzo prettamente decadente.
“Malombra”, il primo romanzo di Fogazzaro, esce nello stesso anno dei “Malavoglia” di Verga, il 1881, ma ne è abissalmente lontano. Presenta, difatti, una figura destinata a divenire centrale nella narrativa dei decenni successivi: quella dell’inetto a vivere, l’intellettuale incapace di inserirsi attivamente nella realtà e destinato alla sconfitta esistenziale. Anche i romanzi successivi di Fogazzaro si addentrano nell’analisi di complessi problemi interiori dell’animo umano ma, a differenza del romanzo verista che studia la realtà oggettiva, i romanzi fogazzariani si concentrano sulla realtà interiore dei personaggi.
Italo Svevo sull’incapacità di vivere
Sulla scia dell’inettitudine di questi ultimi, ci si riallaccia senza dubbio alcuno ad Italo Svevo e ai protagonisti della sua letteratura. Anche tra le pagine dei racconti sveviani troviamo la figura dell’inetto, colui che non è adatto a vivere, ad amare, a instaurare rapporti efficaci con la realtà circostante per poi sentirsi parte indiscussa di essa. Non è che non abbia doti; l’inetto è un personaggio decisamente intelligente, la cui intelligenza, però, non è affatto applicativa, non gli serve a modificare se stesso e il mondo: è quello che Dostoevskij chiama ipertrofia della coscienza.
È il caso di Alfonso Nitti, ad esempio, protagonista di “Una vita”, intellettuale incapace di avere un rapporto soddisfacente con la realtà, inghiottito da un vortice di annientamento dovuto al cedimento di fronte a tutto ciò che sovrasta l’io come coscienza. Discorso che si collega senza mezzi termini a Pirandello e a “Il fu Mattia Pascal”, come immagine di un uomo che fatica a trovare la propria identità.
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