Inferno Canto V, Dante. Paolo e Francesca e le leggi dell’amore

Inferno, Canto V di Paolo e Francesca è probabilmente il più indagato, interpretato e letto dell’intera “Divina Commedia” di Dante. Non è possibile comprendere fino in fondo la storia d’amore e morte dei due amanti riminesi se non sullo sfondo ambientale e problematico che accompagna Dante nel suo viaggio ultraterreno.

Dante Alighieri nei meandri della sua poesia 

Nella lussuria, che per altro è il primo peccato nel quale Dante si imbatte e dal quale si libera, il poeta sperimenta un cedimento più che a un istinto naturale, a un principio vitale. Nel canto di Paolo e Francesca il “De Amore” di Andrea Cappellano viene scelto come l’inequivocabile elemento focalizzante. Francesca ha operato secondo le regole – codificate e approfondite da Andrea – che la tradizione cortese imponeva. Dante sembra essere molto legato ai moduli della tradizione cortese e li fa rivivere in maniera particolare, elaborandone una ricostruzione di linguaggio, d’ambiente e di sentimenti.

«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/prese costui de la bella persona,/che mi fu tolta, e’l modo ancor m’offende,/ Amor, c’ha nullo amato amar perdona,/ mi prese del costui piacer si forte/ che, come vedi, ancor non m’abbandona./ Amor condusse noi ad una morte.» – Inferno, Divina Commedia di Dante Alighieri (vv. 100-106.)

Dietro il parlare più celebre e poetico di Francesca vi è la civiltà cortese, quella che ha assunto come fondamentale l’esperienza d’amore vissuta in modo totalizzante. In questi versi Francesca invoca a spiegazione del proprio operato le “leggi” dell’amore. È Amore che «al cor gentil ratto s’apprende», che si attacca al cuore senza dargli scampo.  È Amore che «a nullo amato amar perdona», che non consente a nessuno che sia amato di non corrispondere all’amante. È l’amore la stessa forza che ha condotto Paolo e Francesca alla morte, rievocata spesso nell’arte per il suo eterno divampare (vedi la scultura “Il Bacio” di Rodin, ndr.) .

«Francesca, i tuoi martiri/ a lagrimar mi fanno tristo e pio.» – Inferno, Divina Commedia di Dante Alighieri (vv. 116-117)

L’armonizzazione con Francesca

Dante appare perfettamente armonizzato con Francesca e profondamente partecipe del suo dramma. È un atteggiamento di profonda empatia e quasi indulgenza, aggettivi che non gli riguarderanno affatto nell’incontro con Filippo Argenti nell’VIII canto. Quella di Dante è una profonda adesione allo spazio culturale in cui si muove Francesca, ma è anche la solidarietà umana per una colpa alla quale ogni uomo si trova esposto, impotente davanti alla grandiosa forza dell’amore. Sì, perché anche il cuore più cinico e maldisposto ai sentimenti amorosi, ritrovatosi immerso nella poesia pura di questo canto della Commedia, non può fare a meno di sospirare e commuoversi di fronte alla storia dei due innamorati.

Nel Canto V dell’Inferno Paolo e Francesca non si pentono di nulla e sopportano serenamente la pena che è stata loro inflitta. Francesca – lo ricordiamo – è la moglie del signore di Rimini Gianciotto Malatesta e, prima che amante, è anche cognata di Paolo. Per tale ragione quel suo amore è adulterino oltre che incestuoso. Si percepisce la viva simpatia e la sottile solidarietà non soltanto di Dante, ma anche dei lettori, affascinati e commossi da quella grande tragedia che ha alla base un amore profondo e solido. Non rinnega se stesso nemmeno davanti alla perdizione. Dante volge a Francesca le sue domande con estrema pacatezza, tatto e gentilezza. Francesca, d’altra parte, non si sottrae affatto all’ansia di conoscenza del Sommo poeta.

«Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ne la miseria.» – Inferno, Divina Commedia di Dante Alighieri (vv. 121-123.)

Anche se il ricordo di un amore profondo e meraviglioso le provoca sofferenza, Francesca rievoca con piacere le vicende che l’hanno vista protagonista.

Inferno, Canto V di Paolo e Francesca. Una libera interpretazione da peccatori non puniti

In fondo bisogna proprio ammetterlo: siamo tutti un po’ Paolo e Francesca, Ciacco, Celestino V, Minosse, Didone, Cleopatra, Tristano, Epicuro e si potrebbe continuare ancora per molto. Siamo stati tutti quanti eretici, lussuriosi, iracondi e accidiosi, avari e prodighi, golosi (e questo è forse il peccato umano più grande per il quale ci sarebbe da proporre indulgenza di massa!), ipocriti, ladri, superbi e traditori.

Siamo ipocriti con leggerezza senza accorgerci di essere colpevoli. Ci comportiamo con superbia senza essere in grado di ridimensionarci. Ladri, sempre, quando rubiamo la serenità dell’altro o semplicemente i suoi sentimenti più intimi, prendendocene gioco. Traditori nelle parole più che nei fatti. Bugiardi ma convinti che le nostre siano sempre menzogne a fin di bene. Avari con i nostri beni e iracondi per difenderli. Ci arrabbiamo in poco tempo rischiando di ferire l’altro. Siamo golosi da morire, ma non possiamo farne a meno e adduciamo al cibo il compito di consolazione.

Tutti peccatori non puniti. Forse riusciremmo ad acquisire maggiore consapevolezza delle nostre colpe se queste fossero punite in nome del contrappasso, secondo una pena opposta o in analogia a quella commessa. Potrebbe essere così o forse no, non ci è dato saperlo. L’essere umano nel suo modo di agire è il mistero più grande ancora da svelare ed è giusto arrestare qui le supposizioni. Continuiamo a vivere peccando perché è nella nostra natura, ma ogni tanto dedichiamo un bel frangente del nostro tempo alla lettura del capolavoro dantesco. Riserviamoci la possibilità di commuoverci e arrabbiarci, solidarizziamo con le parole del Sommo poeta per guardare in maniera profondamente più chiara al chiasso delle nostre vite.

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