Ex camionista, magazziniere, muratore, militante di Lotta Continua, traduttore autodidatta dall’ebraico antico e scrittore. Erri De Luca ha vissuto molte vite e tutte lasciano il segno intorno ai suoi occhi, che lenti scrutano il mondo. Ha regalato ai suoi lettori vite ed emozioni pregne di un’immancabile profondità di pensiero e con consueta umiltà e gentilezza ha regalato a noi de “il Chaos” questa intervista.
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Intervista ad Erri De Luca
Quali vicende della sua vita hanno influito sulla sua persona, portandolo a diventare lo scrittore-poeta che è?
Gli accidenti di un’esistenza non sono cause di qualcosa d’altro. Mi riconosco nel verso del poeta russo Brodskij che scrive: «Nel mondo non esistono cause, esistono solo effetti.» Io sono un effetto dell’essere nato a Napoli nella metà del 1900, delle estati su un’isola, di molti anni di lavori manuali, di lontani scontri di piazza e di quello che si può arbitrariamente aggiungere a un elenco di vari accidenti. La scrittura è il mio tempo festivo, dunque non un mestiere, non un impiego regolare.
Cosa rappresenta per lei la città di Napoli?
Il posto dove sono cresciuti tutti i miei centimetri fino a diciotto anni, la mia lingua madre, la tensione dei miei nervi, il cunicolo di lancio da dove mi sono scaraventato fuori. Provengo da lì, dal tufo respirato nei miei sonni.
La memoria, l’estraneità e la solitudine sono alcuni dei temi portanti della sua produzione letteraria. Hanno fatto parte, in alcuni momenti, anche della sua vita?
Certo. Le storie che scrivo non sono storie che vado a pescare dentro un repertorio di sogni e fantasie, ma li estraggo proprio dalla mia esperienza. Anche perchè in quella mi sento al riparo, non devo inventare, non devo fantasticare, devo solo raccontare.
In quale, tra tutti i libri che ha scritto, si manifesta più fortemente quell’incessante ricerca della corrispondenza tra parole e cose?
Diciamo che questo fa parte del mio puntiglio. Cerco di essere preciso. Il vocabolario italiano me lo permette: è così grandioso, preciso ed espressivo che mi permette quest’approssimazione. Quindi, il mio compito mentre racconto storie, è di usare l’italiano più preciso possibile perchè voglio bene al lettore; essendo io stesso lettore, è come se volessi bene a me stesso, come lettore mentre scrivo.
L’ho imparato dall’Ebraico antico delle scritture sacre, parole che fanno avvenire le cose. Cerco di applicare la lezione perciò ho scarso commercio con le idee astratte. Dalla mia scrittura pretendo che sia almeno precisa.
In una parte del suo libro “Tu, mio” lei scrive: «Adda tene’ pacienza pure int’a casa soia. Deve tenere pazienza pure a casa sua.» La pacienza in napoletano è bella perchè mette un po’ di pace nella parola pazienza. Dunque, in quante e quali altri circostanze il napoletano le ha permesso di dare nuove interpretazioni alle parole, ai fatti e alle circostanze della vita?
Beh, siccome il napoletano è proprio una lingua madre, ho avuto molte occasioni per rispondere a questa domanda. Per esempio, da noi la parola amore si dice “ammor”, e la fame si dice “famm”. Noi diamo maggiore importanza a cose che riguardano profondamente la nostra esperienza. Il napoletano, come tanti dialetti, sa essere più espressivo dell’italiano perchè è venuto prima.
Dal libro “Tu, mio”. «Capita così anche a te, al culmine di una felicità, di accorgerti che c’era già stata prima e che questo è un ritorno?» Tutte le volte che lei è stato felice, è riuscito ad accorgersene in tempo?
La felicità arriva all’improvviso e non su prenotazione. Mi capita di essere spesso felice per istanti, un paio di secondi, varie volte al giorno. La Costituzione americana in un suo articolo dichiara il diritto alla felicità. Credo invece che la felicità sia un dovere quotidiano. Quando si manifesta col suo soprassalto me ne accorgo.
Cosa si sente di consigliare ai giovani scrittori esordienti?
Leggere un camion di libri, ascoltare le storie dei vecchi, sporgersi dalla finestra.