Leopardi e il suo Infinito. Pensieri sciolti sul poeta più amato

Pensieri sciolti sull'Infinito di Giacolo Leopardi
© Tullio Pericoli

La superlativa manciata di endecasillabi sciolti concepita dalla fantasia immaginifica di quel ragazzotto recanatese di buona famiglia e di vaghe speranze, è stata elaborata nella primavera del 1819, con un po’ di labor limae e conseguenti correzioni. Pare che il breve idillio, intitolato “L’Infinito”, sia stato ultimato in data 28 maggio, come dire in questi giorni (ma non è certo, qualche storico ritiene sia stato terminato nell’autunno dello stesso anno). In ogni modo, l’occasione è ghiotta per proporre qualche riflessione eterodossa sul suo autore, Giacomo Leopardi, il poeta “più amato dagli italiani”, e sulla sua lirica più celebre e commovente.

Magis amicus Leopardi e quell’Infinito silenzio

Leopardi è l’uomo delle contraddizioni, con un piede nel ‘700 neoclassico ed uno nell’ ’800 romantico. È, nel contempo, sociale e asociale, nichilista e gnostico, apolitico e progressista, un loico e un prestigiatore fantastico. È lui ad aver introdotto nella nostra letteratura il dubbio, l’ironia, il gioco intellettuale, il “canto dell’anima” – proprio la stessa cifra emozionale e stilistica attribuita allo scomparso Maestro Franco Battiato -.

Leopardi ha inventato il mito dell’ “acerbo vero” e dell’ossimorico “solido nulla e, da buon “materialista platonico”, – felice paradosso di Alfredo Giuliani -, ha infuso il suo lirismo puro di fantasmi che evocano la felicità e il desiderio. E, a proposito dell’illusione del piacere, sembra aver letto Freud. L’aria delle sue liriche è magicamente vaga e rarefatta, satura di un senso di incantata sospensione. E poi quell’armonia espressiva, quel ritmo cadenzato di grande musicalità…

Ciò che più colpisce è il constatare come un ragazzo possa aver tirato fuori dal suo bagaglio tecnico espressivo una tessitura fonico-ritmica costruita intorno a parole il cui timbro vocalico e la cui sillabazione si confanno perfettamente alla magia del suono, anche grazie a quegli enjambement che fanno “scivolare” senso ed effetto fonico. L’altissimo livello è raggiunto per talento naturale alimentato dal pacchetto di conoscenze-competenze acquisito in anni di “studio matto e disperatissimo”. È come se il piccolo genio avesse composto al piano – di scrittura – una mirabile sonatina alla Mozart, utilizzando solo 21 tasti, quelle delle lettere dell’alfabeto, le sue note…

Certo, solo parte della sua vasta produzione poetica è di alto profilo – come dar torto al Croce quando scriveva di “Poesia e non poesia”? -. Molti componimenti sono verbosi, poco ispirati e risuonanti di termini vetusti, aulici, ma quelli ben riusciti, come “Gli idilli”, sono geniali. Più segnatamente, zumerò l’obiettivo su quello più noto, “L’Infinito”.

L’Infinito, in effetti, è solo “L’indefinito”…

«Non solo la facoltà conoscitiva, ma neanche quella immaginativa è capace dell’infinito, ma solo dell’idenfinito, e di concepire indefinitamente» – Zib,472/4.01.1821

Le considerazioni che seguono non hanno alcuna pretesa assiomatica, in quanto sono state elaborate, tra il serio e il faceto, in ossequio alla massima echiana secondo la quale è lecito “gettare un’ombra di diffidenza sulle cose troppo serie”. Ed ecco le mie osservazioni-provocazioni.

Intanto il titolo ha un’accezione troppo matematica, e comunque, se in tale ambito il poeta intendeva restare, da buon grecista avrebbe fatto meglio a ricorrere al termine Apeiron, che alla lettera vuol dire “senza limiti”, concetto che ben s’attaglia alla moderna e libertaria concezione giovanilistica e , per i “garzoncelli scherzosi”, ha anche il merito di richiamare piacevolmente il rito dell’apericena … Ma il titolo più azzeccato sarebbe stato senza dubbio “L’immensità”, proprio per la novità di questo vocabolo nel panoramica lirico dell’epoca e per la sua intrinseca forza semantica. Giacomo ha perso un’occasione, lasciando la primogenitura ad un certo Don Backy, il quale rese celebre questo termine davvero pneumatico negli anni ‘60.

Incipit

Il primo leggendario verso si apre con “Sempre“, ed è svolto al passato remoto. So di dare un dispiacere a Baricco: quell’avverbio di continuità mi piace poco. Sarà anche evocativo, ma ha un accento troppo biblico, definitivo, tombale come un condono. E poi è un significante che guarda indietro, falsando la logica della storicizzazione dell’evento. L’autore compone la lirica nel 1819, quando ha 21 anni, non la scrive come ricordo nostalgico quando ne ha 39. Allora perché quel “mi fu”? Meglio se avesse scritto “Molto caro mi è quest’ermo colle …” ( Nella prima stesura compare proprio un “è” ).

Veniamo ora alla famosa siepe. Il poeta afferma di sedersi di fronte ad essa e di immaginare quello che c’è dietro. Per quanto depresso e complessato, vi sembra possibile che un giovanotto si sieda contro un muro di foglie per mirare “interminati spazi”? No, è che la lirica, il signorino Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro dei conti Leopardi da Recanati, dopo averla masticata con la mente en plein air, la scrisse poi a casa sua, e in più mesi, e la vera siepe era costituita dagli alti scaffali della biblioteca paterna. Quella barriera di foglie che stormivano al vento rappresenta dunque il correlativo oggettivo della sua angoscia giovanile, la “muraglia” della biblioteca che lo confinava in una solitudine malinconica sfociata già in sofferenza esistenziale. E lì, in quella prigione soffocante, che Giacomo Leopardi imparò a “fingersi” la vita e soprattutto gli amori , “sempre” agognati e mai raggiunti.

E il naufragare in questo mare di illusioni non fu del tutto dolce a Giacomo Leopardi…

Il contino si immaginava le belle e intangibili forme della cugina pesarese Gertrude, di Teresina Fattori (Silvia), di Maria Belardinelli (Nerina), immolando al dio Onan le sue voglie carnali. Sul monte Tabor, al quale arrivava in pochi minuti partendo dal giardino del suo palazzo e attraversando poi quello del convento confinante tramite una porta di comunicazione, si fermava come tutti sul ciglio del belvedere a guardare il panorama e a meditare, proprio come quel “Viandante sul mare di nebbia” dipinto un anno prima da Caspar Friedrich. Solo che il viandante, tedesco, non poteva che restare annichilito dal “Sublime”, mentre il nostro “giovane favoloso” era preso da una sehnsucht all’italiana che s’addolciva in un stato d’estasi parareligiosa.

E qui ci vorrebbe Massimo Recalcati per fornire la giusta lettura psicoanalitica, indagando il subliminale di Giacomo. Io trovo due indizi testuali ed uno extratestuale che ci fanno capire come il poeta non fosse ancora del tutto distaccato dai pesanti condizionamenti di mamma Adelaide, la severa matriarca di casa, quella che al tramonto convocava tutta la famiglia per la recita del Santo Rosario. Per questo il poeta, oltre a denunciare un complesso edipico – l’esclusione dello sguardo-castrazione, il mare (metafora classica della madre), ecc.  -, qualifica inconsciamente i silenzi con quel “sovrumani”, che altro non significa che “divini”.

E quando scrive “mi sovvien l’eterno”, quella lettera “e” della parola “eterno” è di tipo cangiante. Muovendo la tessera, nel termine “eterno”, la lettera iniziale si legge ora “e” ed ora “E”. Il terzo indizio, che costituisce una prova, è di natura storica. Proprio in quel 1819, l’anno della crisi, Giacomo Leopardi aveva in mente di scrivere degli “Inni cristiani”, sull’onda di quelli “Sacri” che già dal 1812 il conte Manzoni stava componendo. E che dire della pulsione di morte svelata dalla “quiete” e dal “naufragar (annegar) in questo mare” ?

Ma le chiose al testo, in fondo, sono sovrastrutture, a volte davvero forzate

Ciò che conta è leggere quei 15 versi col cuore, cercando di sintonizzare le proprie emozioni con quelle provate dal giovanissimo Giacomo Leopardi. Ogni parola del breve testo è un incanto. La poesia vera non è concetto ma canto di parole. Per averne conferma basta fare una prova andando a leggere le penose traduzioni in lingua straniera. Ecco gli incipit dei testi traslati in inglese e francese: «This lonely hill has alwaiss been so dear (obbrobrioso!) », «Toujours elle me fut chère cette colline solitaire (banale!)». A questo punto, e non accusatemi di essere di parte, molto meglio il barese del poeta vernacolare Peppino De Benedictis: «Le so’ tenute semme ijnde o’core sta’ aldure sola sole e chisse chiande». Scusate se è poco…

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