Nel cuore di Oriana: la Fallaci che non ci hanno raccontato

Ildebranda. Così si chiamava l’oggetto feticcio che Oriana Fallaci portò con sè da via del Poggione, lasciando Firenze per trasferirsi a New York. Ildebranda, come la sua antenata bruciata sul rogo perchè eretica, era la cassapanca che trasformava la noia di Oriana, scricciolo chiuso nella sua stanza di bambina, in viaggi immaginifici verso mondi e situazioni che poi, da adulta, avrebbe vissuto davvero.

Nata da Edoardo Fallaci e Tosca Cantini, non certo agiati e convintamente antifascisti, era irriverente quella bimba chiamata Oriana, primogenita di 4 sorelle (una adottata). Così sfrontata e veloce nel capire e nel fare le cose, che Edoardo la volle subito come staffetta nelle missioni che conduceva come membro socialista del Partito d’Azione. Il nome della partigiana Oriana era Emilia, forse in omaggio alle origini romagnole del padre, e correva sulla sua bici e per le colline toscane come nessun’altra giovane riusciva a fare.

Brava Oriana, scrivi come un uomo!

Se è vero che il talento sgorga sempre da una cicatrice, tutta la storia della Fallaci sembra aver voluto erigere un monumento al silenzio di suo padre e alla frustrazione di sua madre, condensando nella vita stessa il coraggio da una parte e l’anelito costante alla libertà dall’altra. Edoardo provò la prigione e la tortura quando fu catturato per il suo impegno antifascista, e nonostante tutto non abbandonò mai il silenzio, non tradì i suoi compagni, restò fedele ai suoi ideali. Tosca crebbe la sua primogenita insegnandole la ribellione, e incoraggiandola a non sposarsi, a non essere mai «schiava di nessuno», a studiare e a trovare un’occupazione tutta sua che non fosse nè quella di madre nè quella di moglie.

Fu una costante tensione morale, quella di Oriana, quasi una nevrosi: «fare politica e scrivere è la stessa cosa», diceva sempre. E questo doveva forse esserle già ben chiaro fin da quando, adolescente, dichiarava a tutti «da grande voglio diventare scrittore». Scrittore, al maschile, perchè ai suoi tempi le donne scrittrici erano davvero poche e davvero malviste. E la strada per diventare scrittore la trovò grazie a suo zio Bruno, fratello del padre, che era direttore di Epoca. Lo zio Bruno che la esortava al giornalismo dicendole «brava Oriana, scrivi come un uomo!».

Oriana Fallaci: prima donna italiana inviata speciale

Dopo aver scritto pezzi di cronaca sui temi più disparati per Epoca, allora tra i più prestigiosi settimanli italiani, Oriana Fallaci fu assunta da Arrigo Benedetti a L’Europeo. Fu qui che riuscì ad allenare la sua sfrontatezza occupandosi di moda, società, eventi mondani e cultura, fino al viaggio in Ungheria. Era il 1956, e Oriana divenne la prima donna inviata speciale nella storia del giornalismo italiano.

La prova della rivoluzione ungherese, superata brillantemente, valse a Oriana il trasferimento a New York nel 1958, dove pubblicò il suo primo romanzo (“I sette peccati di Hollywood”) raccogliendo le sue esperienze a contatto proprio con i super divi della mecca del cinema americano e mondiale. Nel 1963 fu la volta del secondo suo romanzo (“Gli antipatici”) in cui dette libero sfogo alla sua profonda vena humor. In queste pagine le sue interviste mettono a nudo la patinata divinità di attori, registi e soubrette per evidenziare l’umanità, spesso ben misera, delle persone.

Dalla rivoluzione ungherese al ruolo della donna

Reduce da questo che fu un vero successo, L’Europeo la incaricò di compiere un giro del mondo alla scoperta della condizione femminile ad ogni latitudine, viaggio che la renderà capace di pubblicare poi un libro che fu tradotto in 11 lingue: “Il sesso inutile”. Un inno alle donne, seguito ben presto da un’altra bandiera del femminismo nascente: “Penelope alla guerra”, frutto dei suoi anni di permanenza newyorkese una volta lasciata per sempre anche Milano. Fu in quegli anni che il suo mentore, il grande Curzio Malaparte (amico e collega dello zio Bruno), dichiarò:

Oriana diventerà una grande donna, e non avrà in Italia tutto quel meritato successo che otterrà invece all’estero.

Parole di un vaticinio, come la storia poi confermò. Oriana Fallaci riesce ad inserirsi negli ambienti della NASA, a Cape Canaveral, dove frequenta a lungo non solo le sale operative della più avanzata impresa spaziale mondiale, ma anche le famiglie degli astronauti – per i quali allora aveva indiscussa ammirazione, ma che nel tempo imparò a misurare con più ponderazione. Il frutto di queste conoscenze si concretizzò in due nuovi romanzi: “Se il sole muore” (nel 1965) e “Quel giorno sulla luna” (nel 1969).

Meglio i soldati degli astronauti: il Vietnam di Oriana Fallaci

La guerra in Vietnam cambierà per sempre la vita di Oriana Fallaci: unica italiana ad essere inviata sul teatro bellico, vi affronterà circa due anni (dal novembre del ’67 al luglio del ’69) che le varranno onori e oneri, e la pubblicazione del suo capolavoro “Niente e così sia”.

Sale e scende dagli aerei A37 che bombardano gli insorti col napalm, rischia la morte correndo sul ponte per fuggire agli attacchi via terra, assiste all’efficacia letale delle nuove pallottole M16, intervista i generali americani e vietcong con pari lucidità, e con pari freddezza ne scriverà resoconti tanto lucidi quanto disarmanti.

La Black Revolution: accellera sul sarcasmo, cancella ogni pietismo

Per tutto il 1968 l’impegno in Vietnam non le impedirà di seguire da vicino anche l’evoluzione della Black Revolution americana, e fu allora che inizierà a grattare via da tutto ciò che vede la patina del conformismo. Accelera sul sarcasmo, e cancella ogni pietismo. I suoi pezzi dissacrano gli eroi e analizzano le ragioni non solo delle vittime ma anche dei carnefici. Perfino i suoi tanto venerati astronauti scenderanno dal piedistallo dove li aveva posti anni prima:

Un solo soldato semplice che si lancia al fronte per salvare un camerata ferito vale più di un astronauta che passeggia sulla luna. Ha più coraggio di lui, e meno mezzi per salvarsi la vita. – Oriana Fallaci

Quella che Alberto Moravia battezzò “datità”, diventa caratteristica principale della Fallaci.

La datità di Oriana Fallaci che fece innamorare Francois Pelou

A Saigon conosce Francois Pelou, già celebre reporter di France Press, eroe casuale che impedisce l’esecuzione di tre vietcong. Ne diventa la sua amante, nonostante lui fosse già sposato. Una storia che finirà con la vendetta totalizzante di Oriana che, per l’ennesima volta lasciata senza speranze di un’unione costante, spedirà poi alla moglie di Pelou tutta la fitta corrispondenza di sei anni di relazione. Spietata, Oriana, ma anche fragile: era ancora a Saigon quando cercò di adottare un’orfana, ma vi rinunciò perchè il dolore superava la speranza.

Spiazzante, geniale, irriverente, assoluta Oriana

Speranza che invece non l’abbandonò mai nella forza della sua scrittura. Furio Colombo la definì “spiazzante”, nel raccontare un aneddoto che la riguardava molto da vicino. Durante un briefing militare pre-tattico, in presenza di molti altri reporter che avrebbero partecipato all’operazione, Oriana scoppia in lacrime e i suoi singhiozzi richiamano l’attenzione del generale Westmoreland, che le si avvicina per consolarla. Lei si dice “impaurita” dalla situazione, e il generale decide di portarla con sè nel suo elicottero, il primo ad arrivare nel campo del quartier generale. Oriana Fallaci fu così la prima giornalista a giungere in teatro, e spedì al suo giornale con ben dieci ore di anticipo rispetto agli altri colleghi tutte le notizie che il mondo stava aspettando. Aveva ragione Colombo: era spiazzante, ma anche geniale, irriverente, e concreta. Era “assoluta”, come la definì Francois Pelou.

Scrivere è sedurre e scoprire: tra puro istinto e acuta analisi

Come assoluto fu il suo celebre saggio “Interviste con la Storia”, che raccolse tutti i suoi incontri coi personaggi che davvero avevano fatto e facevano la storia: Kissinger, Andreotti, Arafat, Khomeini (e la scena indimenticata di lei che si strappa il velo), Golda Meyr (che adorava), Sandro Pertini (che osannava anche perchè partigiano) e Lech Walesa (di cui invece non ebbe alcuna buona impressione).

La sua tecnica giornalistica mescolava puro istinto e acutissima analisi. Iniziava ogni intervista col suo piccolo show di simpatica empatia, mirante a distendere l’interlocutore, ma appena sciolto il ghiaccio emergeva la Oriana Fallaci inquisitoria, quasi uscita da un romanzo di spionaggio in cui lei fosse il poliziotto indagante. Al dialogo seguiva poi la produzione vera e propria del pezzo: partiva con la prima stesura, a mano, sbobinando la registrazione; passava poi al montaggio delle varie parti discorsive, come fosse un regista meticoloso; chiudeva con la limatura, indispensabile a rendere quella tipica versione finale dei suoi articoli in cui ritroviamo tutta la sua incisiva personalità.

L’amore di Oriana Fallaci e Alexandros Panagulis

Il 23 agosto del 1973 è un’altra data molto significativa nella vita di Oriana Fallaci: incontra Alexandros Panagulis appena uscito dal carcere, e sarà con lui fino al 1° maggio del ’76, quando morirà nel tentativo di compiere un pericoloso attentato. Per Panagulis lei scriverà “Un Uomo”, con tre milioni di copie vendute in tutto il mondo. Della loro storia d’amore si è narrato tanto, e ancora oggi rimane molto della leggenda, che nessuno potrà mai scalfire.

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Soffrì, Oriana, nel scrivere “Un Uomo”. Del resto, come raccontò ai suoi colleghi, per lei scrivere significava «partorire un libro». Al redattore che le correggeva le bozze intimava «non tocchi mai i miei capoversi! Sono sacri!», e definiva tutti i suoi scritti «i miei bambini di carta».

Bambini mai nati

Bambini che Oriana non riuscì mai ad avere: ad un primo aborto ne seguì un altro, a distanza di anni, ma il dolore non fu mai assopito. Tanto che nel 1975 riuscì a produrre quello che tuttora resta il più controverso dei suoi romanzi: “Lettera a un bambino mai nato”, tradotto in 22 lingue. Alla vigilia della sua prima pubblicazione, Oriana Fallaci scrisse al caro amico Pier Paolo Pasolini:

Temo che non sarà capito, perchè è una saga del dubbio

Dubbi che lei stessa alimentava nel dichiarare, proprio in quei giorni di fermento: «la guerra è peggio dell’aborto, perchè è un infanticidio rinviato di vent’anni». Dubbi, quindi, e incitamento al ragionare sulla condizione della donna in genere. Dubbi che resero quel libro un clamoroso successo, come continua ad esserlo, con tutte le domande che porta con sè.

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Dall’amore per Paolo Nespoli alla “Inshallah” di Oriana Fallaci

Riscatto, passione, coraggio e vita: potrebbero essere questi i quattro assi di Oriana, che all’apice della sua gloriosa carriera fu inviata a Beirut. Lì conobbe Paolo Nespoli (poi diventato astronauta) di cui si innamorò perdutamente e lo volle come suo ultimo amante. I fatti della guerra civile libanese le valsero la stesura di “Inshallah”, altro suo capolavoro. A questo seguì la “Trilogia contro l’Islam”, produzione veeemente e tagliante che ancora oggi lascia perplessi molti dei suoi più fedeli ammiratori.

La Oriana Fallaci de “La rabbia e l’orgoglio” è una donna violenta, intransigente, dura: ma chi la conosce meglio e meglio conosce la sua letteratura sa che quei suoi scritti sono figli di un contesto molto specifico. Era sola, Oriana, quando scoppiò l’11 settembre e crollarono i grattacieli a New York. Aveva 70 anni e viveva sola proprio in quella città, con la sola compagnia del cancro che le tolse poi la vita. L’islamismo era, per lei, gemello redivivo di quel nazifascismo che fin da bambina lei aveva combattuto strenuamente, e non poteva accettare di abbandonare il mondo lasciandolo in pasto ai novelli distruttori. Lucida fino alla fine, Oriana accettò di tornare a Firenze per spegnersi, e fino agli ultimi giorni scrisse.

Ciliegie e Greensleeves: l’ultimo malinconico enigma

I suoi eredi raccolsero le sue ultime cartelle nel romanzo postumo “Un cappello pieno di ciliegie”, che ci ridona una Oriana Fallaci senza età e senza fine. Eterna, nel racconto della saga familiare personale in cui è insieme spettatrice e protagonista, come a voler finalmente svelarsi ai suoi ammiratori per quello che intimamente è. Avvicinandosi alla morte, la coriacea Oriana non mancò di dettare ancora un’ultima volta i suoi ordini:

Del mio cadavere non m’importa, fatene ciò che vorrete – disse – Ma preferirei essere lasciata in un prato, in campagna, sotto gli alberi e senza pietre. Non voglio funzioni né celebrazioni, ma se proprio vorrete suonare qualcosa, fatemi sentire Greensleeves.

Un brano che riporta il mito nel comune sentire: musica forse scritta da Enrico VIII per Anna Bolena, dono d’amore, e parole poi riscritte nei secoli come denuncia sociale di quanto dura fosse per i più miseri sopportare le ingiustizie. Ci ha lasciati con quest’ultimo enigma, che è monito ma anche suggello

a tutto ciò che LA Fallaci fu e fece: corpo di farfalla e penna di piombo, sempre.

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