
Siamo entrati con entrambi i piedi nel territorio delle “arti sorelle”. Ogni disciplina è, per dirla con Eco, un’”opera aperta”, permeabile, pronta ad integrarsi con le altre forme espressive per saldare affinità, corrispondenze, anche sensoriali. I pittori scelgono così la poesia per dipingere le loro visioni. I poeti scelgono la forma pittorica per comunicare le proprie emozioni e visioni. Naturalmente all’happening non poteva mancare la musica, come accadde già nella scapigliatura. Anche i musicisti abbracciano la poesia per cantare ciò che custodiscono nel cuore.
(Per leggere la prima parte del saggio, clicca qui: Poesia e Arti sorelle)
La Musica nell’arte
Cosa sono, se non poeti, i cosiddetti cantautori e gli stessi parolieri di rango? Come non dare la corona di lauro a Bob Dylan, a Fabrizio De Andrè o al grande Giulio Rapetti, in arte Mogol? Il testo poetico dipinge e canta, crea immagini e produce suoni. Tutto questo sotto il cielo della medesima armonia. L’arte poetica è musica dell’anima e i poeti altro non sono che dei musicisti che suonano le melodie che salgono dal loro cuore. Sono alchimisti spirituali che sanno trarre dalle cose significati profondi usando parole-visioni e la penna come pennello. I pittori fanno l’imprimatura col pennello, i poeti col cervello.
La poesia ha una musicalità interna affidata al suono, alle rime, alle assonanze e consonanze. Anche per Montale «la poesia è parola in musica». Questo è quasi un paradosso, visto che il genovese, come scrisse Leonardo Sciascia, è un poeta antimusicale per antonomasia. Ma c’è musica e musica… Il celebre “urlo nero” quasimodiano (celebre sinestesia de “Alle fronde dei salici”), sottende il coinvolgimento dell’udito-urlo e della vista-nera. Può andare a braccetto con la contemporanea visione di una riproduzione dell’“Urlo” di Munch e di “Guernica” di Picasso, mentre, in sottofondo, la musica di Profondo rosso amalgama e permea il tutto innescando processi sinestetici di tipo psicheledico…
Tra gli intellettuali interessati alla tematica, mi piace citare la milanese Annalisa Cima, una delle tante muse montaliane, scomparsa di recente. Pittrice e poetessa, ha sempre parlato di “muse convergenti”, di poesia che si muove in modo triplice. Con la melopea (semantica del suono, e quindi musica), la fonopea, in cui le immagini si proiettano sulla fantasia visiva (richiamo alla pittura), e infine con la logopea, che si riferisce all’ambiguità del significato delle parole, cioè al loro polisenso.
Allarghiamo per un attimo il nostro orizzonte ad altre forme culturali. Un teorico di primissimo piano delle “arti sorelle” fu certamente il russo Kandinskij, padre dell’astrattismo. L’estroso personaggio – oltre che pittore era poeta, fotografo e avvocato -, recepì le nuove istanze rivoluzionarie del primo ‘900 che rifiutavano la figurazione naturalistica a favore della forza del colore e della libertà delle forme. Elaborò una teoria che spingeva verso la creazione di un’opera sintetica, sincretica, ricca di “grafemi cromatici” che stimolassero la sinestesia, proprio perché si basava, in modo organico, su tutte le arti praticate. Insomma siamo al concetto di Opera d’arte totale. Non a caso il russo scrisse anche saggi sulla musica ancora oggi studiati nei Conservatori.
Cos’è la sinestesia?
Credo sia arrivato il momento per chiarire cos’è la sinestesia. Come migliaia di altri vocaboli in uso, il termine viene dal greco attico: sun – aisthesis, con (insieme) sensazione. Si tratta quindi di un fenomeno sensoriale di tipo psicologico-neurologico dal quale scaturisce l’associazione percettiva di più sensazioni rivenienti da campi diversi. Insomma una combinazione armonica di avvertimenti sensoriali simultanei. Il più diffuso è legato al binomio udito-vista, la c.d. “visione colorata“. Gli studi più importanti del settore sono quelli di Galton (1883), Mudge (1920) e Marks (1975). Molti tra i creativi più famosi hanno avuto il dono della sinestesia: Michelangelo, Leonardo, Kandinskij, van Gogh, e V.Nabokov, il cantore di Lolita.
Il caso di Frida Kahlo
La messicana Frida Kahlo, oggi ben nota anche al grosso pubblico grazie alla riscoperta femminista da cui sono scaturiti film, fiction, libri e mostre monografiche, fino a vent’anni fa era un’artista coperta dall’oblio. Ora abbiamo il piacere di apprezzarne tutto il talento artistico, manifestato tramite i suoi coloratissimi, originali dipinti di stile naif ed anche tramite le sue poesie, che denunciano una straordinaria sensibilità ed una finezza stilistica non comuni. Per comprendere la sua sensibilità artistica, propongo la lettura di una delle sue liriche più rappresentative: “Ti meriti un amore”, dedicata al marito fedifrago Diego Rivera, alla quale invito ad abbinare, come corredo musicale, lo studio 144 n. 3 di Liszt “Un sospiro”.
Anche per la tormentata Frida, la parola poetica cela sempre un pensiero tradotto poi in visioni. Le sue sono immagini offerte sotto forma di versi, e anche con lei si realizza l’incanto della parola che racchiude all’unisono l’udibile e il visibile. Pittura e poesia sono generi contigui, diversi nel modus operandi e nella tecnica di comunicazione, ma hanno in comune lavis sentiendi, la forza del sentire, che rappresenta l’impulso essenziale del processo di creatività artistica. Non a caso, “poiein” in greco attico significa “creare”.
Musica nel vulcanico Ungaretti
Uno tra i giganti del ‘900 in cui sono presenti marcate interazioni tra poesia e pittura è certamente Giuseppe Ungaretti. Ricordo che il Maestro, oltre che uno dei mostri sacri della poesia, fu anche pittore, saggista e critico d’arte. – Come lo è stato il suo competitor Salvatore Quasimodo, amico di grandi pittori come D. Cantatore e G. Usellini. –
A proposito dei personalissimi versi di Ungaretti, si è parlato di Verba picta, e non a caso. La frequentazione romana con i fratelli De Chirico influenzò la sua visione artistica globale, avvicinandolo alla corrente metafisica. Sicché, alcune sue poesie, trovano il correlativo oggettivo in alcune emblematiche tele di Giorgio De Chirico, ed anche i temi e i titoli di alcune liriche ungarettiane richiamano l’atmosfera rarefatta e lunare dei lavori pittorici metafisici ( “L’ora cieca del deserto”, “L’ora della monotonia estrema” ecc. ).
Ungaretti, nel 1933, scrisse un saggio dall’esplicito titolo “Poesia e pittura”, definendo la pittura «discorso scritto dal profetico pennello». In un testo seguente osserva che «i problemi della mia poesia nel periodo 1919-27 sono gli stessi che avevano Picasso o Stravinskij». Restano i medesimi descritti nel “Rappel à l’ordre”, manifesto di intellettuali che volevano reagire alle avanguardie post belliche con un ritorno a una forma classica. Poi la cifra stilistica ungarettiana abbracciò l’ermetismo come difesa alla censura del MinCulPop.
Giuseppe Ungaretti fu uno sperimentatore e realizzò il connubio artistico tra pagina e tela, giungendo ad una concreta interazione tra segno pittorico e poetico. Pubblicò libri nei quali, alla maniera dei futuristi, compaiono parole, disegni, schizzi… Nella sua lunga esistenza ebbe modo anche di avvicinarsi all’arte informale, collaborando con Burri e Fontana.
«Ora il vento s’è fatto silenzioso/ E silenzioso il mare;/ Tutto tace; ma grido/ Il grido, sola, del mio cuore,/ Grido d’amore, grido di vergogna / Del mio cuore che brucia / Da quando ti mirai e m’hai guardata / E più non sono che un oggetto debole. / Grido e brucia il mio cuore senza pace / Da quando più non sono / Se non cosa in rovina e abbandonata.» – lirica del 1941, tratta dai “Cori descrittivi di stato d’animo di Didone”
Il sottofondo musicale idoneo potrebbe essere la Suite n.1 per violoncello di Bach o la sonata per pianoforte “Didone abbandonata “ di Clementi. Il tema della donna lasciata sola, che soffre la sua condizione, è stato molto caro anche ad Alda Merini, poetessa di straordinaria sensibilità. Amica di pittori e musicisti, si è molte volte cimentata nel declamare i suoi lavori accompagnandosi al piano. La lirica della Merini la vedrei bene col sottofondo dell’intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni.