“La campana di vetro” di Sylvia Plath. Ribellione nel maccartismo

"La campana di vetro" di Sylvia Plath

Nel 1963 Victoria Lucas pubblica il suo primo e unico romanzo, “La campana di vetro” (di  Sylvia Plath). No, non è un errore di distrazione. La poetessa e scrittrice sceglie di celarsi dietro lo pseudonimo di Victoria Lucas per preparare il pubblico statunitense al suo tanto agognato debutto sulle scene della narrativa. 

Il romanzo però riceve un’accoglienza tiepida e titubante da parte del mondo editoriale americano e nell’immediato non convince il grande pubblico. Ma questa è la storia ricorrente di alcuni dei maggiori romanzi. Poco dopo infatti il panorama letterario mondiale, con il contributo dei media cinematografico e televisivo, ha rivalutato “La campana di vetro” e l’ha inserito tra i classici sempreverdiUn’avvertenza per l’uso. Se è vero che la Plath ha avuto esperienze simili a quelle della protagonista, leggendo, si potrebbe cadere in una trappola pericolosa. Seguire la pista dell’autobiografismo –  laddove si potrebbe trattare di semplici spunti letterari – o cercare tra gli eventi personali della scrittrice si rivelano delle forzature. 

“La campana di vetro” di Sylvia Plath denuncia il maccartismo 

È impossibile tuttavia non rivedere nel romanzo della Plath punti di contatto con la società odierna: la smania di arrivare, la competizione e la corsa continua per spiccare e brillare più degli altri. Ma “La campana di vetro” è anche figlio dei suoi tempi e perfettamente in linea con l’aria opprimente e chiusa delle istituzioni create dall’America “per bene” dell’ondata maccartista.

Negli anni Cinquanta l’America affida al Senatore Joseph McCarthy la propaganda anticomunista, coerente col clima di Guerra Fredda. Tuttavia, un ideale politico – comunque opinabile nelle sue premesse – si trasforma in una propaganda sociale dilagante che si spande a macchia d’olio. Non è un caso che l’inizio del romanzo accenni alla vicenda dei coniugi Rosenberg, accusati di essere spie russe e condannati alla sedia elettrica. In una tale tensione ogni ambito della vita quotidiana del cittadino americano deve rispondere ad un canone di precisione e accuratezza. Bisogna essere un buon americano. 

Le ansie e la trappola del fico. L’inizio della depressione

Produrre, lavorare, essere concreti, presentabili e allineati è l’urgenza di una società che punta a volersi mostrare a tutto il mondo. La protagonista del romanzo Esther Greenwood è una studentessa brillante. Smaniosa di dimostrare il proprio valore, frequenta gli ambienti entusiasmanti di New York e sogna segretamente di mantenersi scrivendo poesie. Poi la rottura. Quando Esther inciampa un paio di volte nei vortici instabili della vita, scivola piano piano nel buio della propria mente.

Proprio le esigenze della società americana pesano sulla psiche di Esther, la quale proietta le aspettative altrui su di sé. L’autoconvinzione nel volere un comune “femminile” lavoro da stenografo e nel volersi sposare la porta a negare la propria identità. Lotta con il desiderio di una sessualità più disinvolta, ma arrossisce quelle rare volte in cui svela di voler essere una poetessa. Percepisce la pressione di un mondo che le chiede di essere tutto e di non rinunciare a nulla. Nulla, ad eccezione della sua stabilità. 

«Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sud America, un altro fico era Constantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali.»

La metafora del fico rivela il peso che la società produce sulla comunità in genere. È una corsa contro il tempo e acchiappare il “fico” giusto nel momento più opportuno, prima che appassisca, è l’urgenza che impressiona la giovane Esther. Niente di così diverso rispetto all’attuale ansia di produrre nuove menti capaci di adattarsi ad ogni circostanza o alla necessità di procedere a pari passo con le nuove comunicazioni. 

Varcare le soglie verso cambiamento e morte

Sylvia Plath fa sì che in questo marasma caotico Esther abbia una reazione e che non rimanga a guardare la propria vita mentre questo marasma caotico la inghiotte. Così, un’altra metafora ricorrente è quella della soglia. Molte volte vediamo la protagonista di fronte ad una porta chiusa o passare da un ambiente ad un altro; altre volte custodisce il desiderio di voler cambiare Stato o continente. Che sia una soglia fisica o simbolica, Esther sente una nuova urgenza. S’impone un po’ di lentezza e di intimità in un doloroso e definitivo passaggio personale. Una nuova soglia. La psicanalisi.

Accarezzando i contorni della morte, la protagonista si mette a nudo di fronte alle mille manifestazioni di sé. È qui che si inserisce la chiave per comprendere il significato dietro al titolo del romanzo. “La campana di vetro” è quella in cui Esther ha trovato il suo posto, asfissiata dalla stessa aria di sempre e protetta da un mondo che non la conosce e non vuole farlo. Va troppo veloce per farlo. 

«Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.»

La stessa campana poi è anche quella dei laboratori medici. Un’altra metafora dunque ci porta ad aprire una nuova criticità. Ben conscia dei metodi sperimentali che si attuano sui pazienti di istituti psichiatrici, Sylvia Plath decide di denunciare l’irresponsabile ignoranza degli psichiatri che consigliano sedute di elettroshock senza mai aver davvero voluto conoscere tutte le pieghe dell’animo dei pazienti. Senza voler scendere con loro negli abissi. 

“La campana di vetro” di Sylvia Plath. Il valore di una vita dedita alla poesia

Per questo “La campana di vetro” è un romanzo coinvolgente e ispiratore. L’esperienza personale di Sylvia Plath ha contribuito a creare un’atmosfera tesa, soprattutto nelle descrizioni delle sedute di elettroshock. In più il lento avanzare della depressione sulla mente e sul corpo della protagonista è così impressionante da indurre a riflettere sui risvolti e i mille volti di questa malattia. Esther affronta un’esperienza atroce ma purificante con uno sguardo tra l’ironico e il cinico.  La sofferenza di vivere in un mondo che non contempla la poesia, la delicatezza, la parola sussurrata produce in lei una repulsione mentale ma anche fisica. La prosa della Plath si concentra molto sui sensi e sulle percezioni corporee. Leggendo “La campana di vetro” di Sylvia Plath si crea una strana magia: l’evoluzione della depressione induce a tormentarsi e il dolore fisico a rabbrividire. Scritture così evocative e partecipative davvero convincono che un mondo senza poesia o senza parole sia un mondo in rovina.

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