
Il 1889 è l’anno che vede la pubblicazione di due grandi testi della letteratura italiana: il “Mastro-don Gesualdo” di Giovanni Verga e “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio.
‘Mastro-don Gesualdo’ di Giovanni Verga e ‘Il Piacere’ di Gabriele D’Annunzio: due romanzi agli antipodi
Già al più superficiale livello narrativo i due romanzi appaiono agli antipodi. D’Annunzio racconta di un giovane e raffinato intellettuale, proveniente da un’illustre e ricca famiglia. Verga – al contrario – presenta l’ascesa sociale di un operaio che con il duro lavoro e una profonda dedizione è riuscito ad occupare una posizione egemonica nella società locale di appartenenza, tanto da potersi arrischiare in una serie di speculazioni economiche. Proprio come il profilo dei personaggi, risulta completamente diversa anche l’ideologia che muove le azioni degli stessi. Lo scrittore siciliano presenta una descrizione feroce delle motivazioni socioeconomiche che animano i conflitti interpersonali e collettivi. Quello abruzzese, invece, si concentra unicamente sull’introspezione di un giovane uomo dotato di notevoli qualità artistiche.
«Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte cose belle e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare di eletta cultura, di eleganza e di arte. […] L’urbanità, l’atticismo, l’amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. »
Questo ritratto rappresenta, dunque, l’eccellenza del protagonista dannunziano. Andrea Sperelli proviene dall’antica nobiltà meridionale, e possiede alcune qualità che lo distinguono dal grigiore contemporaneo.
«Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: “Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”».
Alla vita considerata come una miscela di qualità raffinate, si contrappone, però, la vita determinata dalle condizioni materiali, che è ciò su cui si concentra la scrittura verghiana; al primato dell’arte si affianca il primato della “roba”, che è una specifica posizione ideologica verghiana. Da muratore ad accaparratore di beni demaniali, fino a diventare usurpatore di un sistema di potere. È così che può essere riassunta l’intera carriera di Gesualdo, che dimostra di meritare sul serio l’ossimorico “mastro-don” che gli viene conferito sin dal titolo dell’opera.
La divergenza cui abbiamo fatto notoriamente cenno fino a questo momento, si può estendere anche a livello stilistico. Se D’Annunzio ne “Il Piacere” aveva fatto ricorso a tutte le sue qualità formali di colorito e di evidenza, indulgendo a troppi “eccessi di forma e di esteriorità”, con la preziosità del lessico e il frequente gusto dell’arcaismo, Verga tende a differenziare linguisticamente i personaggi mano a mano che si rappresentano ambienti più evoluti e complessi. Il suo, dunque, è uno stile linguistico che non presenta caratteri standard e costantemente elevati, ma si adatta alla realtà effettiva dei personaggi raffigurati.
La rappresentazione della società
Il progetto verghiano – come attestato anche dal titolo – prevedeva il passaggio dalla lotta per i bisogni materiali alla vera e propria vanità aristocratica. A mostrarlo è il titolo ossimorico di cui è fregiato il protagonista. La rappresentazione della realtà sociale è dunque obiettivo fondante della produzione di Giovanni Verga, che si adatta a tutte le svariate sfaccettature della stessa. Le cose cambiano con D’Annunzio che, con la pubblicazione de “Il piacere”, proponeva una rappresentazione del mondo aristocratico visto dal di dentro, con i suoi riti mondani, con le sue falsità, con i suoi “mezzi sentimenti” che possono trasformarsi in perversioni profonde.
La struttura narrativa del romanzo dannunziano costituisce un’altra via rispetto a quella costruita da Verga. Lo scrittore abruzzese, difatti, rifugge da ogni delega al mondo rappresentato, garantendo al suo narratore un saldo controllo della vicenda narrata. Allo stesso tempo, il narratore dannunziano mostra una certa sintonia stilistica con il protagonista e il suo mondo, al punto da lasciare intravedere un comune senso di appartenenza.