La body art di Marina Abramović. La nonna delle arti performative
Artista poliedrica e misteriosa, Marina Abramović è oggi una delle personalità più conosciute, influenti e controverse dell’arte contemporanea. Autodefinitasi una «nonna della performance art», l’artista serba ha fatto di questo genere artistico il suo credo, unendo il suo innato talento artistico alla straordinaria sensibilità. La storia esistenziale e le vicende artistiche che accompagnano le sue performance sono caratterizzate da un connubio di arte e vita. I dolori e le sofferenze oltre ad essere un bagaglio del proprio vissuto, rappresentano un manifesto dell’arte di Marina.
«Una mattina stavo camminando nel bosco con mia nonna. Era tutto così bello e calmo. Avevo solo quattro anni, ero così piccola. E vidi qualcosa di molto strano. Una linea retta attraverso il sentiero. Ero così incuriosita che mi avvicinai. Volevo solo toccarla. Poi mia nonna gridò così forte. Quella fu la prima volta nella mia vita in cui provai davvero la paura. Ma non sapevo di cosa dovessi avere paura. In realtà fu la voce di mia nonna a spaventarmi, poi il serpente scappò via. È incredibile come la paura si costruisca dentro di te.»
Se è vero che l’arte arriva lì dove le parole non bastano, Marina Abramović ne è l’esempio più lampante. Gioie, dolori, paure, sofferenze, ogni tipo di emozione e di stato d’animo trova la sua espressione attraverso il linguaggio del corpo. La body art di Marina Abramović afferma l’infinitezza delle espressioni corporee, perché è sul corpo e attraverso di esso che accadono gli eventi più significativi della nostra esistenza.
La poetica della sua performance si fonda sulle relazioni tra l’artista e il pubblico, ma anche sul contrasto tra i limiti del corpo e le infinite possibilità della mente.
“House with the Ocean View”
Una vita tutt’alto che semplice. Nata nella Yugoslavia del dopoguerra, segnata dalla metà degli anni ’40 agli anni ’70 da una dittatura comunista. Un luogo che la stessa Abramović nelle sue interviste ha definito “oscuro”, circondato da una perenne scarsità di qualsiasi cosa e da un tipo di estetica basata sulla pura bruttezza.
«Nella Belgrado della mia infanzia il grigiore era ovunque. Tutto era, in un modo o nell’altro, di seconda mano. Ricorderò per sempre gli spazi comuni, erano dipinti di un colore verde sporco e avevano lampadine penzolanti che emettevano una luce grigia che offuscava la vista. Questa combinazione della luce e del colore delle pareti rendeva la pelle di tutti giallastra, come fossero malati di fegato. Qualsiasi cosa tu facessi, c’era sempre un senso di oppressione, e un po’ di depressione.»
Trasferitasi in età avanzata a New York, per amore di suo marito che voleva vivere a New York, inizia a sperimentare un nuovo linguaggio artistico che utilizza il suo corpo sia come veicolo che come soggetto, compiendo atti pericolosi o estenuanti, indagando sulle sensazioni e sugli effetti da essi provati. Lavori che coinvolgono spesso anche il pubblico, sia fisicamente che emotivamente.
Sono 2 le opere realizzate a New York da Marina che hanno rivoluzionato il suo status di artista. La prima opera fu fatta alla galleria di Sean Kelly, intitolata “House with the Ocean View”. Un lavoro di sperimentazione del “qui e ora”, realizzato all’interno di tre scatole, ovvero tre unità, con tre scale esterne fatte di coltelli, in modo da non poter mai scendere.
Nella prima scatola/unità vi era un gabinetto con la doccia, nella seconda una sedia con un tavolo, e nella terza un rubinetto che usciva dal muro, per l’acqua, e un letto. L’idea era quella di sperimentare cosa sarebbe successo se si fosse purificata, o cosa sarebbe successo se questo suo purificarsi avesse potuto cambiare l’energia atomica di quello spazio, e cambiare il modo in cui il pubblico percepisce l’artista, l’arte e il tempo. Marina visse lì per dodici giorni, senza scendere e senza parlare con nessuno. Creò così una comunità artistica, delle relazioni tra persone che si recavano la mattina prima di andare a lavoro e la sera per vedere se Marina era ancora lì. Le sue emozioni diventano quelle del pubblico. Così come la paura che ci viene trasmessa fin da quando siamo piccoli dai nostri genitori e da chi ci circonda. I loro timori diventano i nostri e ce li portiamo dentro per tutta la vita.
La storia di Marina Abramović. “Rhythm 5”
È su questo pensiero che si fonda il suo secondo lavoro newyorkese, “Rhythm 5”, presentato anticipatamente da Marina all’artista Beuys, il quale le consigliò di essere prudente.
«Sii cauta con il fuoco, mi disse. Ma cauta non era parte del mio vocabolario all’epoca».
Il lavoro era strutturato con una stella, simbolo del comunismo, la forza repressiva sotto la quale Marina era cresciuta. Rappresentava ciò da cui voleva fuggire, ma anche molte altre cose. C’era il dolore per l’abbandono di suo padre in giovane età. Il carattere rigido di sua madre, sempre molto dura nei suoi confronti, aveva persino provato a toglierle la vita quando aveva saputo di alcune foto che la ritraevano nuda al Museo di Arte Contemporanea di Belgrado. La stella rappresentava anche un pentagramma, un’icona venerata e avvolta nel mistero da antiche religioni e culti, una forma che possiede un enorme potere simbolico. A un certo punto della performance, Marina diede fuoco alle schegge di legno, poi camminò attorno al perimetro della stella alcune volte, tagliandosi le unghie e i capelli e gettandoli nel fuoco. Poi si sdraiò al centro della stella adattandosi alla sua forma. C’era un silenzio di tomba e il solo rumore era quello delle fiamme.
“The Cleaner”. Mostra di Marina Abramović e installazioni
«Per liberarsi dal dolore bisogna capire cos’è il dolore.»
Queste sono solo alcune delle opere più significative dell’arte di Marina Abramović. Nel 2018 a Firenze, a Palazzo Strozzi, è stata realizzata la prima retrospettiva italiana dedicata a una donna: Marina Abramović. Una retrospettiva diventata poi itinerante, con destinazione finale Belgrado, città natale dell’artista. La mostra, intitolata “The Cleaner”, è incentrata sul tema del “fare pulizia”. Marina voleva pulire l’anima, purificarsi, liberarsi quindi del superfluo, delle paure e dei dolori che l’hanno segnata. Giunta ad una profonda consapevolezza di se stessa, del suo valore di donna e di artista; ha esplorato e indagato talmente a fondo la sua anima, guardato faccia a faccia le sue paure e i suoi limiti, che ormai non resta altra via d’uscita che liberarsene. Lo ha fatto guardando alla sua carriera decennale. La mostra, divisa in tre parti, ripropone al pubblico le opere più significative della carriera di Marina.
«Credo che essere in grado di affrontare i limiti dia molta libertà.»
La mostra contempla tutta la sua vita. Nella prima sala i lavori giovanili e le performance estreme degli anni ’70. Sono gli anni del comunismo, dei dilemmi giovanili e dei rapporti difficili con sua madre e suo padre. Nella seconda sala le opere realizzate insieme a Ulay, suo grande amore e compagno di lavoro per 12 anni. Ma questa è anche la sala degli amori sbagliati, quelli in cui aveva creduto e sono invece andati via. La terza e ultima sala rappresenta una tappa in solitudine, quella finale, della liberazione dal dolore.
“The artist is present”. Marina Abramović seduta
È qui che viene mandata la performance “The artist is present”, l’artista è presente, ancora una volta “qui ed ora”. Il lavoro fu messo in atto nel 2010 da Marina, seduta per sette ore al giorno per tre mesi nell’atrio del MoMa di New York, da lei ritenuta la sua performance più difficile e impegnativa.
In “The Cleaner” viene messa in scena la resistenza mentale e fisica dei performer che interpretano i lavori di Marina. Dopo mesi di attente preparazioni riproducono con i loro corpi le sue performance, ma con le loro emozioni e le loro esperienze, non con quelle dell’artista. Perché è una performance realizzata in questo tempo presente, e non può funzionare se cerchi di interpretare un’altra persona, devi essere te stesso. Ecco perché i performer sono nudi, sul vano di una porta, in piedi di fronte a un’altra persona e si guardano negli occhi. Stanno provando quelle emozioni in quel preciso tempo presente, non nel tempo di Marina.
«Cos’è la vita? Va e viene così, è tutto qui.»