
“Moby Dick” di Herman Melville, pubblicato nel 1851, inizialmente col titolo “The Whale – La balena”, sembra voler incarnare la stessa corsa verso l’ignoto che è il tema portante di questa epopea. Una vera e propria sfida, in un momento storico che vedeva l’America nel pieno sviluppo del caratteristico patriottismo, totalmente impreparata dinanzi alla scrittura dalla complessa ironia di Melville. A rendere ancor più audace l’esperimento melvilliano ha concorso una cospicua quantità di riferimenti e di modelli stilistici: da un lato, i notevoli rimandi biblici, dall’altro la narrazione in stile omerico.
«Tutto ciò che sconvolge e tormenta di più, tutto quel che rimescola la feccia delle cose, ogni verità farcita di malizia, ogni cosa che spezza i tendini e coagula il cervello, tutti i subdoli demonismi della vita e del pensiero, ogni male insomma, per quell’insensato di Achab, era personificato in modo visibile e reso raggiungibile praticamente in Moby Dick. Sulla gobba bianca della balena ammucchiava il peso di tutta la rabbia, di tutto l’odio sentiti dalla sua razza fino da Adamo.»
Basta un evento, un istante a volte, per stravolgere una vita. Così come basta una sventura per generare un’ossessiva corsa al riscatto. Il capitano Achab, che incede nervosamente sulla sua gamba di legno, avanti e indietro lungo il cassero della nave Pequod, carica su di sé una rabbia assetata e la distribuisce al suo equipaggio ogniqualvolta parla dell’acerrimo nemico, Moby Dick. Un rapporto atavico quello tra l’uomo e la natura, deteriorato quando il primo tenta di soverchiare la seconda e superarne i limiti.
Herman Melville guarda al modello biblico
Quando il narratore Ismaele guarda il mare, pensa ad un rifugio. Se le onde alte e cavallone gli vengono incontro, a lui sembra che lo stiano abbracciando. Per scacciar via la monotona vita sulla terraferma, il narratore si imbarca in qualità di marinaio semplice, per lui il modo più puro di vivere l’esperienza nelle acque.
«Ogni volta che mi ritrovo sulla bocca una smorfia amara; ogni volta che nell’anima ho un novembre umido e stillante; quando mi sorprendo a sostare senza volerlo davanti ai magazzini di casse da morto, o ad accodarmi a tutti i funerali che incontro […], allora mi rendo conto che è tempo di mettermi in mare al più presto.»
Se è vero che, a più riprese e diffusamente, nelle Scritture, l’uomo si sente come Ismaele, piacevolmente spiazzato di fronte al Creato divino, molte altre volte ne è stravolto in senso totalmente contrario. Ciò accade a Giona – a cui Melville dedica un excursus notevole – e ricalcando la storia dalla Bibbia. Il profeta, per una successione infausta di eventi dopo aver disobbedito al Signore, viene tristemente inghiottito proprio da una balena. Non può che essere visto un rapporto decisamente esplicito con la Cristianità in toto.
La natura solenne e grave del viaggio che l’equipaggio del Pequod va ad intraprendere entra in perfetta armonia con il tono biblico. Tra le pagine di “Moby Dick”, non pare strano sentirsi calati in un’atmosfera grandiosa, leggendaria. Alla drammaticità quasi sacra si accompagna una scrittura roboante e d’effetto, purtroppo motivo di un iniziale insuccesso del romanzo. In effetti, le lunghe descrizioni ed i capitoli dedicati a particolari pieghe narrative moderano una lettura che, forse, non era stata affatto concepita per essere spedita.
L’intensità epica di Moby Dick. L’Omero americano
Per questo, è possibile ravvisare un ulteriore filo nella rete di rapporti che Herman Melville ha saputo intessere con altri riferimenti letterari e poetici. Infatti, i poemi di Omero – Iliade e Odissea – vengono immediatamente richiamati alla mente, se si fa caso a due fattori fondamentali. A livello narrativo, spiccano la sete di conoscenza e quella curiosità che aveva caratterizzato anche Ulisse; ma è sullo stile che si accostano di più le due tradizioni. “Moby Dick” di Melville è un’opera molto vasta, se non nel numero di pagine, certamente nei gradi di narrazione: dal filone principale passa a digressioni sempre più disparate.
Ad esempio, capita che mentre si è intenti a leggere della quotidianità dei protagonisti, si apra un capitolo sulle navi – la Diavolessa, il Bocconcino ed il Pequod – e sulle loro caratteristiche. Oppure che, una volta scelto l’equipaggio, vi si dedichino ben due capitoli dal titolo epicheggiante “Cavalieri e scudieri”, in cui si stilano tutti i nomi dei marinai, e non solo, che operano sul Pequod. Tale accorgimento narrativo – il catalogo – veniva spesso usato nella poesia omerica. Il tutto concorre a rendere il racconto ancor più intenso e graduato. Individuato il rivale storico del capitano Achab, Melville apre un capitolo molto lungo di “Cetologia”: materia principale è una lista particolareggiata di tutte (o pressappoco) le specie di balene e cetacei che popolano i mari. Sono solo piccoli esempi di incastri romanzeschi ad intervalli più o meno regolari, ma in “Moby Dick” ricorrono molte altre volte, e di certo non casualmente.
La lettura ondulata di Moby Dick
Con “Moby Dick” di Melville si toccano punte drammatiche davvero elevate. Ogni elemento che compone la narrazione è appassionato. I dialoghi o i monologhi sono ricchi di pathos e spesso celano un’allegoria. Le descrizioni sono liriche e dettagliate – il capitolo sul candore della balena ne è testimone – e perciò la lettura non è da immaginarsi come una corsa a perdifiato dritta fino alla fine, ma più come una lenta elaborazione, una navigazione su acque sconfinate ora tempestose, ora placide.