Proteste ad Hong Kong per la libertà e contro l’emendamento

Proteste ad Hong Kong

Le proteste ad Hong Kong dilagano. “Porto Profumato”, questo è il significato del nome cantonese della città, che negli ultimi sei mesi profuma di rivoluzione e ha sete di democrazia. In subbuglio dal nove giugno durante una calda sera d’estate, la metropoli è stata invasa da un fuoco che ha travolto la popolazione fino a farla riversare nelle strade, ricordando la così detta “Rivoluzione degli ombrelli” del settembre 2014. Ex colonia britannica, Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Cina. Possiede una sua moneta, un suo sistema giudiziario e soprattutto un suo sistema politico, distante dal partito comunista cinese e più vicino ai sistemi occidentali, come quello britannico.

Le proteste ad Hong Kong sui rapporti con la Cina

Le rivolte che hanno portato la popolazione nelle piazze, hanno avuto inizio per l’opposizione all’emendamento della legge sull’estradizione dei latitati verso Paesi in cui non vigono accordi di estradizione, compresa la Cina. Questo ha un avuto un forte impatto sui sostenitori della democrazia, perchè tramite questa legislazione sarebbe potuta venire a mancare la linea di demarcazione tra Hong Kong e la Cina continentale, erodendo il principio su ci si fonda il sistema legislativo giudiziario:  “Un paese, due sistemi”.

Un accordo in vigore dal 1997, stabiliva che Hong Kong sarebbe stata restituita alla Cina, che si impegnava a rispettare l’autonomia della regione amministrativa speciale per 50 anni. Con le proteste avanzate dalla popolazione, Carrie Lam – leader del governo di Hong Kong – ha ritirato il disegno di legge lo scorso 24 ottobre, ma «troppo poco e troppo tardi». I cittadini richiedono più diritti e semplicemente più democrazia. Il movimento di protesta, nato pacificamente, ha messo nel caos la metropoli, che ha risposto alle avanzate popolari con una violenta repressione dei manifestanti e della folla.

I veri interessi dietro lo Stato di emergenza

Le forze armate guidate dal governo sono arrivate al culmine della violenza con l’uccisione di due ragazzi, spari di armi da fuoco sui manifestati, innumerevoli arresti l’assedio al Politecnico e all’aeroporto. La folla è ancora più inasprita dalla legge che vieta l’uso di maschere per nascondere il viso, mettendo in difficoltà i protestanti che non vogliono farsi riconoscere. Questo provvedimento è stato legittimato con la dichiarazione di Stato di emergenza, nonostante l’Alta Corte lo abbia considerato incostituzionale.

Con il ricorso allo Stato di emergenza, infatti, il governatore può introdurre qualsivoglia legge senza dover passare per il Parlamento. Ciò potrebbe essere un via libera per manovrare i propri interessi a discapito della popolazione e dunque anche un via libera per Pechino e per aumentare i propri poteri sulla sua regione autonoma, forse solo de jure, ma non de facto. Infatti, nonostante l’accordo menzionato, Pechino ha tentato più volte, soprattutto negli ultimi anni, di insediarsi nelle politiche della regione di Hong Kong.

«Cinque richieste, non una di meno»

I manifestati invadono le strade della città gridando «Cinque richieste, non una di meno!». Si esige non solo il ritiro definitivo dell’emendamento per cui è partita la rivolta e le dimissioni di Carrie Lam, ma anche più libertà e diritti, una commissione d’inchiesta sulle violenze messe in atto dalla polizia e il rilascio e amnistia dei manifestanti arrestati in questi duri giorni per la popolazione di Hong Kong.

La Cina, dopo sei mesi di proteste, ancora non è intervenuta per sedarle aspettando che si spegnano da sole. Ma quando la polizia abusa della propria divisa e del potere conferitogli, quando la popolazione di una metropoli come quella di Hong Kong sente l’esigenza di avere più diritti e libertà, è messo in luce il fallimento delle finte democrazie di impronta occidentale, divenute globali per interessi capitalistici e personali.

Uniti per una causa comune ad Hong Kong combattono per un sistema politico migliore retto dagli interessi di un’intera nazione che guarda al futuro.  Il popolo desidera non essere schiavo di un padrone che allunga i suoi tentacoli per meri interessi economici e geopolitici, per possesso di terre e potere. Schiavo di una società che non pone il cittadino al centro dell’attenzione, ma al contrario ai margini, ormai chiusi da fin troppe frontiere.

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