
Negli ultimi anni il dibattito sul bullismo è diventato rovente, specialmente quando si verifica tra le quattro mura di un’aula scolastica. Molti hanno inneggiato ai “bei tempi di una volta”, ricordando quando professori e genitori erano autorità temute e rispettate, altri si sono chiesti e hanno chiesto di chi fosse la responsabilità.
Di quest’ultimo gruppo fa parte Michele Serra, che nella sua rubrica “L’Amaca” ci sdogana la sua “sgradevole, ma necessaria” verità: “il rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto di provenienza”. Una sentenza lapidaria che ha suscitato scandalo e non poche critiche a cui sono seguite, puntuali, le precisazioni. Ma è davvero così? E, se sì, cosa ci dice ciò sulle origini e sulle cause di questo male?
Da dove nasce questo fenomeno e quali sono le cause?
La presa di coscienza del problema è relativamente recente ed è stato definito per la prima volta negli anni ’70 in Norvegia da Dan Olweus. Le violenze subite nel silenzio dalle vittime e raccontate a gran voce dai carnefici non erano considerate altro che giochi o “ragazzate”. Qualche genitore, forse, consigliava al figlio di rispondere a tono o di colpire più forte, ma niente di più. D’altronde, si sa, solo ciò a cui si dà un nome può cominciare ad abitare le nostre menti. Da allora, anche a chi non frequenta gli edifici scolastici può capitare di imbattersi in racconti di depressioni adolescenziali, suicidi, ragazzi che si rifiutano di andare a scuola o che hanno paura di accendere il computer.
Secondo i dati ISTAT del 2014, hanno subito bullismo più ragazzi appartenenti a contesti molto disagiati, più a nord che a sud. Non ci sono dati per stabilire se i ragazzi meno abbienti siano più violenti, ma possiamo dire con sicurezza che sono più spesso vittime.
La dinamica che si innesca quando si verifica un episodio di bullismo è la stessa che regge il mondo dalla notte dei tempi: la prevaricazione del più forte nei confronti del più debole. La debolezza, in questo contesto, può essere determinata da tantissimi fattori, primo fra tutti la diversità: un difetto fisico, una disabilità, un orientamento sessuale, la timidezza, essere il peggiore o il migliore della classe, una sorta di incapacità di reagire. È come se i ragazzi potessero fiutare questo elemento nell’aria e sappiano con la maestria ed arroganza di uno stratega, ma con la furia cieca di un animale, trarne profitto.
Dove si annida e prolifera il bullismo?
Nei luoghi della nostra società che la legge non contempla e dove la riflessione ancora non è arrivata, non si fa che replicare gli stessi meccanismi di violenza e prevaricazione che caratterizzano il fenomeno del bullismo. Le cause e le origini di questo fenomeno sono da ricercarsi nelle carceri, tra le mura domestiche, su internet, nelle forze armate, sul posto di lavoro, nelle invettive che si lanciano i politici. Lo fanno i ricchi con i poveri, i dirigenti con gli impiegati, gli italiani con gli immigrati, gli uomini con le donne, gli adulti con i bambini e anche i bambini tra di loro.
E se tutti conveniamo sul fatto che non sia normale e certo non auspicabile, dobbiamo ricordarci di quale modello offre la nostra società. Una realtà in cui i ruoli si basano molto spesso su rapporti di forza, dove l’appartenenza ad una classe povera suona come un’accusa, non come un problema da risolvere, e dove l’idea di punire viene prima di quella di prevenire. Allora insieme ai necessari provvedimenti, ad un’operazione culturale di prevenzione, proviamo a pensare a quante volte negli occhi dei più piccoli si riflette l’immagine di un sopruso, quante volte hanno visto uno sconfitto emarginato. Dobbiamo chiedercelo, perché, se una prevenzione esiste, deve nascere da questa riflessione.