Il tocco d’oro di Arthur Rubinstein. Il grande interprete di Chopin

Arthur Rubinstein è stato un pianista classico americo-polacco, cresciuto in America durante la II Guerra Mondiale e conosciuto in tutto il mondo. Molti compositori scrissero per lui, che aveva la fama di “più grande interprete chopiniano” del suo tempo. Ricevette il riconoscimento internazionale per la musica e le performance, che Rubinstein eseguiva senza sosta con grande acclamazione in ogni Paese del mondo. Pochi sanno che dedicò la sua intera vita alla musica, ritirandosi solo per un breve periodo a causa di un deterioramento della vista. Nonostante la deportazione della sua intera famiglia dalla Polonia, i problemi di salute e l’età, continuò a suonare per il suo pubblico e in ogni parte del mondo, per ben 8 decadi.
Decise prudentemente di ritirarsi malgrado la delusione del mondo classico nel 1975. Aveva ormai 89 anni.

L’intera vita di Arthur Rubinstein dedicata alla musica classica

Arthur Rubinstein fu da subito riconosciuto come prodigio dalla sua famiglia. Alla nascita i genitori decisero di chiamarlo Leo, ma fu il fratellino più a grande a scegliere, quasi profeticamente, il suo nome.

«Dovrà essere Arthur. Dato che Arthur X (il figlio dei vicini) suona così bene il violino, anche lui potrebbe diventare un grande musicista!»

E così nacque Arthur Rubinstein, bambino precoce che a pochi anni dimostrava già un curioso interesse per le lezioni di pianoforte della sorella maggiore. A 4 anni sfoggiava una talentuosa predilezione per l’armonia e la polifonia, rifiutando di suonare il violino e scegliendo invece la tastiera. Solo tre anni dopo debuttò per la prima volta con i pezzi di Mozart, Schubert e Mendelssohn.

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Durante la I Guerra Mondiale Rubinstein si trovava a Londra e rimase profondamente turbato dalle atrocità commesse dalla Germania. In seguito all’olocausto il suo dissenso non fece che crescere, decidendo che non avrebbe mai suonato in quella nazione. Riguardo la sua famiglia, commentava semplicemente che era molto grande, e che Hitler li aveva uccisi tutti. Gli unici Paesi in cui non avrebbe mai suonato, diceva, erano due: il Tibet, poiché troppo grande, e la Germania, poiché troppo infima.

Viaggiare più di esercitarsi!

Per il resto, era continuamente in movimento. Svolgeva una vita che definiva terribilmente impegnata. Rubinstein viaggiava talmente tanto da non avere il tempo di esercitarsi. Ciò suonava un sacrilegio a chiunque lo dicesse, pianisti sono abituati a fare pratica dalle 5 alle 8 ore al giorno! La moglie Aniela, che veniva da una famiglia di musicisti, lo confermava: il metodo di Arthur era poco ortodosso ma lui affermava che ripetendo continuamente un pezzo se ne perdeva la spontaneità.  Quindi si soffermava sulle parti più difficili.

Ma prima di ogni concerto le rivelava di avere le dita come spaghetti, vuoti di memoria e che avrebbe portato la disgrazia su sé stesso, non suonando mai più. Ogni volta Aniela si sentiva di morire, ma quando poi Arthur si sedeva e suonava alla perfezione il primo tempo, sapeva che sarebbe andato tutto bene. Nonostante il nervosismo e l’agitazione, Rubinstein non lasciava trapelare nulla. Si prendeva il tempo di entrare in scena, sistemarsi sullo sgabello, aspettare che l’ultimo colpo di tosse fosse svanito nell’aria, prima di mettere le mani sui tasti. Malgrado egli stesso rivelasse di avere le farfalle nello stomaco, sapeva che era il prezzo da pagare per vivere la sua vita.

La tecnica pianistica

Arthur Rubinstein era molto critico verso sé stesso. Più di una volta si era accusato di scarsa attenzione ai dettagli, poca pratica, imparare troppo in fretta pezzi nuovi. Una volta, in treno, imparò per intero le Variazioni Sinfoniche di César Franck poco prima del concerto. Tuttavia adottò un regime di pratica pianistica che lo aiutò a sviluppare il più efficiente meccanismo di virtuoso nella storia del pianoforte. Questo era incentrato sulla postura dell’intero torso più un’eccezionale mobilità laterale. Lavorando con uno strumento con risposta dei tasti moderata, riusciva ad affondare nei tasti.

Parte del genio tonale erano dati da una fortunata costituzione fisica, certo. Le sue mani non sembravano particolarmente grandi, ma in realtà erano enormi. Il suo mignolo era più lungo della media e il pollice si stendeva verso il basso formando un angolo ottuso. Questo, più la lunghezza del palmo, lo rendevano capace di distanze eccezionali (da un dodicesimo Do fino al Sol). La sua routine di pratica cambiò radicalmente all’arrivo dei primi figli. Voleva che guardassero il padre come un modello di disciplina e duro lavoro. Una volta, sua figlia Eva (diventata una famosa fotografa) tornata da scuola si buttò tra le braccia del padre chiedendogli della musica. Arthur, che non aveva mai dedicato nessun pezzo, si sentì fortunato di suonare per lei.
«No, non il piano Papà» rispose Eva. «Il giradischi.»

Il tocco d’oro di Arthur Rubinstein

Ancora oggi Arthur Rubinstein è considerato un esempio di genialità e talento per il mondo. Non perché la sua memoria o le sue abilità lo rendessero un modello troppo distante da raggiungere. Lui stesso rivelava che in America c’erano pianisti molto più dotati di lui. Ciò che li rendeva diversi era l’approccio con il palco. Quando Rubinstein suonava, la platea ne rimaneva incantata. Il suo tocco controllato dimostrava tecnica e precisione, ma era anche in grado di trasmettere emozioni. Era un connubio perfetto tra la tecnica classicista e l’enfasi dello stile romantico. I pianisti giovani, diceva, erano troppo cauti. La musica fluiva dalle loro tasche più che dal loro cuore. Rubinstein amava ciò che faceva e trasmetteva il suo amore al pubblico.

«Suonerò fin quando potrò. E spero solo che i miei amici me lo diranno, quando non sarò più in grado di farlo.» – Arthur Rubinstein


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