Andrea Secchi, Maestro del Coro presso il Teatro Regio di Torino dal 2018. Allievo di Andrea Lucchesini e Piero Bellugi, ha frequentato diversi corsi di perfezionamento con maestri di chiara fama. Ha calcato le scene concertistiche italiane e internazionali, da Bonn a Pechino, da Varsavia a Pretoria, da Londra a Tokyo. Nel suo palmares annovera oltre 20 vittorie in altrettanti concorsi musicali in Italia e all’estero, e diversi premi speciali per la migliore interpretazione di composizioni di Bach, Schoenberg, Beethoven, Mozart e Schubert.
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Nel 2003 ha debuttato da semifinalista alla prestigiosa “Salle Cortot” di Parigi come miglior italiano nella Leeds International Piano Competition. Altro Maestro del Coro dal 2005 al 2013, ha lavorato al fianco di giganti come Zubin Mehta, Riccardo Muti, Lorin Maazel, Riccardo Chailly e Gianandrea Noseda. L’Opera di Vienna e quella di Oslo l’hanno già avuto come figura di spicco. Oggi Torino è il suo “regno”.
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Intervista ad Andrea Secchi
Maestro Secchi, come nasce la sua passione per la Musica, e segnatamente per la musica classica?
Mio padre è musicista autodidatta, con grande passione per la musica. In famiglia la musica c’è sempre stata; non proprio la Classica, dato che lui suonava in complessi di musica leggera tipica degli anni ’60, ma fu lui a notare la mia predisposizione fin da bambino: mi addormentavo ascoltando i dischi di mio padre, anche quelli di musica rock.
Poi a Poggibonsi, vicino casa mia, aprirono una scuola di musica. Fu un evento eccezionale: io avevo solo 5 anni ma dissi ai miei genitori che mi sarebbe piaciuto frequentarla. Per me era un gran divertimento. Ero la mascotte della scuola: mi coccolavano, quindi ci andavo molto volentieri e non facevo alcuna fatica. Col tempo gli insegnanti cambiarono, e cambiai anche io scuola di musica, trovando insegnanti sempre più bravi.
Non ho ricordi di me senza la Musica. Ho avuto la fortuna di avere ottime guide, soprattutto Giorgio Sacchetti, il maestro che mi ha segnato maggiormente, al Conservatorio di Firenze, dove entrai all’ottavo anno di pianoforte (e dopo anni di lezioni private). Le cose iniziarono presto a farsi serie: iniziai a vincere i primi concorsi di pianoforte. Terminato il conservatorio, fu la volta delle master class e dei corsi di perfezionamento, poi l’Accademia Chigiana a Siena e ancora quella di Sesto Fiorentino, dove conobbi Andrea Lucchesini, un altro maestro fondamentale (e l’ultimo) per me.
Andrea Secchi: la musica e l’arte tra talento e impegno
Quanto conta il talento e quanto l’applicazione personale?
Questo varia da soggetto a soggetto. Il cosiddetto talento certo deve esserci, perchè agevola lo sviluppo di un giovane musicista, fino a renderlo un vero professionista. Credo però, rifancendomi all’impostazione ricevuta dal maestro Sacchetti, che bisogna evitare di sovrastimare l’importanza del talento quando si ha un bambino davanti. O meglio: dal punto di vista dell’insegnante l’apparente carenza di talento non deve giustificare una minor stimolazione di quell’allievo.
Chi ha talento ma non ha voglia di studiare non arriva da nessuna parte. E lo dico anche per esperienza personale: ne ho visti tantissimi che magari all’inizio non sembravano dotati di grande talento, ma maestri adeguati sono riusciti a tirarlo fuori e a permettere il cosiddetto salto di qualità. La predisposizione innata che si ha nel far qualcosa, qualunque cosa, deve poi essere alimentata e guidata. Chi veramente arriva a fare grandissime cose, (e sono pochissimi al mondo), ovviamente conosce talento e applicazione. Questo vale anche per i virtuosi: senza predisposizione naturale, che ti porta a fare cose difficili in maniera naturale e apparentemente semplice, è difficile arrivare in vetta.
La musica è un lavoro costante: devi abituarti a gestire lo stress. Anche in teatro, molti direttori d’orchestra dicono che “bisogna abituarsi ad essere perfetti”. Ma se tutti i giorni non si punta a fare del proprio meglio, quando arriva il momento di farlo, e quel giorno per un qualunque motivo non sei in splendida forma, dovrai aver preparato corpo e mente a farlo in maniera quasi automatica. Proprio come gli atleti professionisti. Certo, dal punto di vista puramente tecnico qualcuno ha il dono naturale di eseguire agilmente passaggi ardui per il 90% dei musicisti, ma se ti accontenti di quello senza lavorarci sopra, non otterrai comunque la perfezione.
Prima di approdare al Regio come Maestro del Coro, cosa ha fatto?
Ho seguito un lungo percorso. Prima lo studio del pianoforte, con l’obiettivo di diventare pianista. Ma ho sempre accompagnato i concerti dei cantanti. Oltre 20 anni fa ho seguito un corso tenuto dal Maggio Fiorentino, e lì ho iniziato a lavorare più seriamente sul repertorio vocale. Il mondo del teatro d’Opera è complesso, con lavori che non conosci finchè non ci sei dentro, con le proprie tradizioni da rispettare che sono patrimonio di tutti, ma si imparano davvero solo lavorandoci. Soprattutto nell’Opera italiana, che ha le sue caratteristiche tipiche sconosciute ai teatri del resto del mondo. Dunque al Maggio Musicale Fiorentino ho lavorato per 9 anni come Secondo maestro del coro.
Non ho mai lasciato il pianismo, ma poco per volta il teatro ha preso il sopravvento per diventare attualmente il mio unico lavoro. Per scelte sia personali che familiari, qualche anno fa vinsi il concorso per la posizione di Maestro Collaboratore all’Opera di Oslo, dove poi sono stato bene nonostante l’organizzazione stessa del lavoro sia risultata molto diversa rispetto a quella italiana. Ho quindi accettato subito la chiamata da Torino, quando è arrivata.
Ci parli della bellezza del Canto…
Pur non essendo io cantante, ma osservatore del canto, penso che la sua bellezza stia nel fatto che parliamo della forma d’arte espressiva più spontanea che l’uomo ha. Da neonati ci cantano le ninne nanne e crescendo cantiamo per istinto, anche con la testa fra le nuvole. Ogni volta che dobbiamo tirar fuori ciò che abbiamo dentro, lo facciamo con il canto. Ancor prima di scrivere, impariamo a parlare e a cantare. Anche prima di dipingere, si parla e si canta.
Nel canto professionale la voce rimane lo strumento più espressivo che c’è. Pure nel suonare un qualunque altro strumento, il maestro sollecita a farlo in modo “cantabile”, appunto. Il “legato”, ad esempio, è un modo di suonare che proviene dal canto: un unico fiato che lega tutte le diverse note in esecuzione. Quello che fai con lo strumento è spesso un’imitazione di ciò che si farebbe con la voce. Nel canto lirico la tecnica vocale è molto difficile e insegnare a cantare è impegnativo proprio perchè ognuno ha uno strumento diverso. Tecnica e metodo vanno quindi riadattati ai vari strumenti (vocali) dei cantanti.
Il Maestro del Coro ponte tra voce e musica
Cosa fa esattamente il Maestro del Coro?
Dal punto di vista pratico deve preparare un coro: si inizia studiando lo spartito coi cantanti, spesso a sezioni divise se è molto impegnativo. Fatto il primo lavoro di costruzione, il brano va amalgamato. Bisogna mettere insieme voci diverse, menti diverse, caratteri diversi: quindi è un lavoro di assemblaggio. Il maestro del coro di una realtà prestigiosa, come quella del Teatro Regio, ha il vantaggio di lavorare con professionisti che sanno già cosa darti e come dartelo. La musica ha sì una grande parte di soggettività, ma la base resta oggettiva: la musica, del resto, è scritta. Quindi, una volta riusciti a rendere bene ciò che il compositore ha scritto, si è già fatto tanto.
Poi subentra l’interpretazione, cosa che nel mettere d’accordo 50 o 100 persone su un unico testo (che per noi musicisti rimane sempre un “testo sacro”), non è mai semplice. Un musicista in fondo è come uno scultore: la musica è tridimensionale, quadridimensionale… una nota lunga, è spazio; una nota più forte e breve, è pressione. Il maestro del Coro quindi potrebbe lavorare come uno scultore che dà forma all’arte canora di gruppo. Una volta preparato il Coro, il maestro consegna il proprio lavoro al direttore d’orchestra, che continuerà a metterci la propria interpretazione, lavorandoci ancora sopra.
Quindi il Maestro del Coro è il punto di collegamento dinamico tra compositore del brano e direttore d’orchestra?
Io penso che il Maestro del coro sia essenzialmente un preparatore. Ci sono brani più limpidi e semplici su cui lavorare. Ce ne sono altri che puoi starci sopra anni, ma ogni volta potresti renderli meglio. In toni figurati, potrei dire che il Maestro cresce un figlio fino alla maturità – e questo figlio è il Coro – e poi lo consegna al direttore d’orchestra, che continuerà a formarlo sotto la propria guida.
La grandezza di un direttore d’orchestra, a sua volta, sta nel riuscire a capire la preparazione e la dote basilare del coro come unicum, e a farlo risplendere ancor di più. Se un coro già nella prima prova rende bene, significa che è già stato preparato bene dal Maestro. Poi molto dipende dal carisma del direttore, che può essere un fuoriclasse. Ma il Coro vede tutti i giorni il maestro, che resta il suo punto di riferimento. Serve una buona dose di psicologia ed empatia, perchè il maestro lavora con materiale umano, e l’atteggiamento reciproco varia sempre.
La cosa più bella della sua professione?
Fare musica. Poter decidere come farla. Se poi la fai in maniera convincente, e il coro reagisce bene, e il direttore si mostra soddisfatto del tuo lavoro, ottieni la soddisfazione maggiore. Se qualcosa è venuta bene o è venuta male, un professionista lo avverte a prescindere dal successo finale che ti riconosce il pubblico.
L’altro aspetto che mi affascina del mio lavoro è leggere insieme per la prima volta una cosa mai fatta: trovare uno spartito mai riprodotto, renderlo in musica e canto insieme, coinvolgere il coro e vederlo entusiasta. Di ignoto è rimasto ben poco, a causa di Youtube e della tecnologia diffusa, ma la magia di sentire un concerto o un coro per la prima volta resta inarrivabile.
Quali sono i suoi brani preferiti?
Sono tantissimi e posso citarne solo alcuni che mi vengono in mente adesso: nel repertorio pianistico, il Primo Concerto di Brahms per pianoforte e orchestra, il Quarto Concerto di Beethoven per pianoforte e orchestra e tutte le ultime sonate di Beethoven, specialmente la Nona. Nel repertorio corale gli Schicksalslied di Brahms, i Quattro pezzi Sacri di Verdi, il Requiem di Verdi e quello di Mozart (che ho scoperto da bambino quando mi regalarono una registrazione di Von Karajan: un amore “a primo ascolto”). Tra le Opere liriche, l’Otello di Verdi, la Turandot e la Bohème di Puccini, la Carmen di Bizet e il Peter Grimes di Britten.
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Cosa consiglierebbe ad un adolescente per invogliarlo ad accostarsi alla musica classica?
È difficile, perchè gli adolescenti di oggi sono tanto diversi dall’Andrea Secchi adolescente. Direi comunque che la musica sinfonica su un adolescente può essere di forte impatto, ma anche quella orchestrale, ricca di colori ed effetti. Sono tiologie musicale più fruibili rispetto ad un piano solo o ad un’opera lirica.
Ma i ragazzi posso darti grandi sorprese: quando ero un giovane supplente di musica alle scuole medie, feci ascoltare “La Mer” di Debussy agli studenti tredicenni. Non era affatto un pezzo scontato. Chiesi agli studenti di scrivere ciò che suscitasse l’ascolto del brano, e uno di loro scrisse qualcosa di meraviglioso, che non solo confermava il successo di Debussy nel rappresentare proprio il mare, ma conteneva emozioni che io stesso non sarei stato in grado di svelare.
E lì compresi che agli adolescenti non bisogna proporre per forza qualcosa di elementare, ma qualcosa che contenga spunti emotivi in grado di coinvolgerli. Nella musica che ascoltano i giovani oggi, soprattutto la Trap, spesso non esiste alcuna melodia; c’è solo ritmo, e rumore. Tuttavia questo li rende capaci di ascoltare musica meno convenzionale rispetto a quella leggera che ascoltavamo noi adolescenti negli anni ’90, e potrebbero anche gradire perfino la musica atonale.
In fondo, dalla musica ognuno prende ciò che ricerca. Ad esempio, il Bolero di Ravel o alcuni brani più tribali di Stravinsky, sarebbero facilmente trasponibili in composizioni contemporanee piacevoli ai ragazzi. Ma se fai loro ascoltare il “Chiaro di Luna” di Beethoven, difficilmente non ne resterebbero coinvolti. È comunque sbagliato pensare che i giovani non siano portati per la musica classica. Io stesso ho potuto constatare che ai concerti spesso arriva un pubblico molto giovane, a riprova che la Musica è viva.
Con Andrea Secchi sul futuro della Musica
Che futuro prevede per la Musica?
Se si parla di mercato, la situazione è molto difficile. Se si parla invece di far musica, penso che ci sia tanta gente che voglia ancora studiare musica, e musica Classica. Per esperienza vedo tanti giovani ai concerti, quindi sono ottimista. Da quando ho iniziato la mia carriera fino ad oggi, in un arco di 30 anni, non credo che statisticamente sia calato il numero di giovani che frequentano i teatri d’opera o i concerti: mi attengo a ciò che vedo in sala, non avendo dati certi.
Temo però che il pericolo principale stia nella superficialità che prende ovunque il sopravvento, livellando un pò tutto. I social sono la prima causa di questo appiattimento. Tutto sembra facilmente fruibile e poco impegnativo. Le fiction ne sono la riprova più lampante: è più facile seguire puntate brevi piuttosto che dedicare la propria attenzione a un bel film, magari lento, lungo e impegnativo in termini di attenzione. Così in passato, per conoscere la cronaca, bisognava prendere un giornale e sfogliarlo. Oggi invece la notizia ti arriva sul cellulare, leggi il titolo e pensi di aver acquisito tutto.
L’arte invece è qualcosa di più articolato: la musica classica, in particolare, richiede anche molta attenzione, e c’è il rischio che questo sembri difficile o impopolare. Ma riuscendo ad andare oltre l’immediatezza e la superficialità, le cose cambiano. Lavorando nel teatro d’opera, non posso non ricordare che l’Opera in sé, in passato, sia stata quanto di più popolare la nostra nazione abbia mai avuto. Perfino i contadini cantavano le arie della Traviata, fino a inizio ‘900. In Italia bisognerebbe garantire una fruizione più ampia dell’Arte in generale e della musica classica in particolare.
Dunque la Musica e l’Arte tutta sono più di semplici diletti?
La musica è un fenomeno culturale che forma la persona. Se la facciamo diventare una questione elitaria, con costi proibitivi per i giovani, di certo non potrà più formare un gran numero di persone. In realtà vedo tante iniziative a prezzi ridotti, e questo dipende dai Teatri e dalle città; per cui credo che ci sia ancora possibilità di tenere la musica Classica come un bene “popolare”.
Invece temo che la Cultura non abbia più un ruolo centrale nella nostra società. Il problema non sta tanto nel pagare 60 euro per un concerto, (che magari qualcuno poi ne paga 100 per andare allo stadio): se una cosa ti piace, trovi il modo di avvicinarti. Ormai da decenni, purtroppo, la Cultura non è tra le priorità del nostro paese. All’estero invece, come in Norvegia -dove ho lavorato per anni- anche se declinata in maniera diversa, la Cultura ha una grande importanza. Germania e Francia stanziano enormi finanziamenti per le opere liriche e per la Musica, diversamente da quanto accade in Italia.
ll punto centrale è: noi operatori della Cultura di questo paese, siamo una spesa o un investimento? Sono certo che se un cittadino frequenta il teatro, o l’opera, o il cinema d’essay, o le librerie, difficilmente sarà poi un cittadino che non rispetta l’altro, che non ha senso civico, che non ha etica morale. La nostra società si basa su princìpi che derivano dalla nostra Cultura o no? In passato perfino i popolani gridavano “Viva Verdi”, conoscendo il messaggio storico dell’acronimo risorgimentale contenuto nell’espressione. Oggi, quanti ancora ne conoscono l’origine e il significato?
© Foto di Edoardo Piva, credit Teatro Regio di Torino