Si provi a immaginare, per chi ci riesca, una fredda serata d’inverno in cui, trepidanti, le carrozze attraversano le luminose strade della città dirette al Théâtre national de l’opéra-comique. Siamo a Parigi, ed è il 10 Febbraio del 1881, data del debutto in Francia dell’opera fantastica “I racconti di Hoffmann – Les Contes d’Hoffmann” di Offenbach.
Conosciuto come padre edificatore del genere dell’operetta, Jacques Offenbach raggiunge l’eccellenza con questa opéra comique, basandosi sul libretto delle complesse figure di Jules Barbier e Michel Carré. Nella fredda notte della prima, il pubblico francese si deliziava con uno spettacolo alla portata di tutti. Era ormai nato un genere ben lontano dai consueti canoni del melodramma e che differiva invece per brillantezza, orecchiabilità musicale e vivacità d’espressione. Era il periodo dell’ascesa degli irreprensibili canoni musicali aristocratici in favore di una borghesia in fuga dalla quotidianità e dedita al divertimento più lascivo e dissoluto. Ne “Les Contes d’Hoffmann” di Offenbach vige tuttavia la regola del fantastico, dell’assurdo drammatico, che lega tra di loro le fallimentari storie amorose di cui ci parla il protagonista – Hoffman per l’appunto – che si svelano fin dal secondo atto con l’entrata in scena di Olympia.
“Les Contes d’Hoffmann”. La bambola di Offenbach
Nel primo atto ci viene presentato Hoffman, poeta perdutamente innamorato di una cantante famosa e protagonista dello spettacolo del Don Giovanni, Stella. Il suo amore è tale da spingerlo a trovare rifugio nel vino e nelle taverne. La fanciulla è infatti contesa da un altro pretendente, Lindorf, che cerca di guadagnarsi il suo affetto giocando d’astuzia e d’inganno. Ma quella non è la prima storia d’amore ad avvelenare il passato del poeta. Sebbene egli finga un oggettivo distacco rifugiandosi nei fumi dell’alcol, non riesce a sedare le curiosità di un gruppo di studenti che alloggia alla locanda, finendo così per raccontare tre dei suoi amori più avvincenti.
Olympia, la bambola meccanica
Nel secondo atto – “Les Contes d’Hoffmann. La bambola” di Offenbach – entra in scena il personaggio più famoso dell’opera. Molte sono state le interpretazioni musicali di Olympia, il primo amore del poeta, che fin da subito viene rapito dalla perfetta bellezza della fanciulla e non riesce a vedere la sua vera natura da robot. Olympia non è altro che l’ultima creazione di un fisico, un tempo maestro di Hoffman stesso, che mette alla prova l’invenzione spacciandola per una donna vera e celebrando il suo ingresso nella società. Malgrado i numerosi avvertimenti del suo fidato amico Nicklausse, Hoffman continua imperterrito a voler conquistare Olympia. Così entrambi si ritrovano ad assistere con ammirazione alla chanson cantata dalla fanciulla durante la festa in suo onore.
Les oiseaux dans la charmille
“Les oiseaux dans la charmille”, l’aria più conosciuta di tutta l’opera! Evidentemente concepita per strappare una risata, la chanson non racchiude in sé un significato profondo. È tuttavia un grosso ostacolo di rappresentazione che ha bisogno soprattutto di bravura recitativa e di grande padronanza lirica. Il canto di quest’ultima è infatti costellato di fioriture musicali, ovvero ornamenti e abbellimenti melodici che modificano la struttura lineare di una frase.
Essendo molto elaborati e veloci, “Les Contes d’Hoffmann. La bambola” di Offenbach è sicuramente una bella prova da superare, che venne resa in maniera ineccepibile dal soprano italiano Luciana Serra nella versione del 1986. Ancor più arduo se si pensa all’interpretazione. La bambola infatti deve muoversi con gesti legnosi e automatici, col volto stranamente statico e inespressivo, solo la voce dà parvenza di umanità, tutto il resto è fin troppo artificialmente perfetto. Nonostante tutti questi particolari il protagonista continua a non accorgersi della verità intorno alla fanciulla e questo rende ancora più suggestivo il lato comico della situazione quando, nel bel mezzo dello spettacolo, il creatore di Olympia deve correre a ricaricare il congegno per evitare di farla spegnere del tutto.
L’epilogo de “Les Contes d’Hoffmann” di Offenbach
Le altre due storie di Hoffman seguono la stessa linea esemplare del secondo atto. Tutte e tre insieme le donne rappresentano i vari aspetti della stessa Stella, amata tanto dal poeta e che coerentemente a come succede per le altre, non riesce mai a raggiungere davvero. Hoffman promette alla fine dell’opera di dedicarsi per sempre alla Musa della poesia, apparsa in un’ebbra visione per manifestarsi al poeta.
Offenbach non riuscì mai completare l’ultimo dei cinque atti teatrali del capolavoro. Dopo la sua morte, l’opera venne terminata dal compositore francese Ernest Guiraud. Il sogno del debutto che lo avrebbe indiscutibilmente elevato a maestro dell’opéra comique francese lo aveva ispirato durante tutto il processo creativo della composizione, ma tuttavia non riuscì mai ad assisterci. Non poteva sicuramente sapere, d’altro canto, quanto sarebbe stato ricordato dai posteri e quanto il suo lavoro sarebbe stato d’ispirazione per artisti del calibro di Baudelaire, Balzac, Poe e da Dostoevskij. Di sé stesso diceva infatti:
«Ho un vizio tremendo, incorreggibile, di lavorare senza sosta. Me ne dispiaccio per chi non ama la mia musica, perché quasi certamente morirò con un’aria sulla punta della penna»