Storyteller d’altri tempi, Bruce Springsteen è sicuramente uno dei protagonisti della storia del rock degli ultimi 30 anni, ancora in grado di stupire e di proporre testi sinceri pregni di sostanza. La sua idea di musica come strumento di denuncia e sublimazione della realtà gli ha consentito di elevare al rango di poesia storie di ordinaria vita quotidiana. Negli anni Bruce Springsteen ha scritto quasi 300 canzoni, conteggio che però non comprende tutti i testi scritti per altri artisti, regalati oppure registrati ma non ancora pubblicati.
Bruce Springsteen può definirsi senza dubbio una figura atipica rispetto alla trita mitologia del rock ‘n roller dedito all’abuso di droghe e alcol. Una voce fuori dal coro rispetto alle mode musicali che lo hanno affiancato nel corso degli anni.
Bruce Springsteen dagli esordi alla “E Street Band”. Un sogno e una chitarra
Quando l’America nixoniana soggiaceva al proprio fallimento e osservava lentamente marcire i propri sogni nello sfondo vietnamita, Springsteen riaffermava la fede americana nella possibilità del riscatto. Quando cominciava a diffondersi su larga scala la corrente punk e new wave con tutto il suo carico di rabbia, Bruce incarnava i valori morali volti a combattere la wilderness dei tre secoli addietro. Bruce Springsteen ha avuto un peso storico e morale soprattutto tra gli anni ’70 e ’80, quando ha regalato speranze a migliaia di disillusi incarnando il modello di “una luce che non si spegne mai e che va cercata di continuo”.
Il primo incontro di Bruce con la musica avviene il 6 settembre 1956, giorno in cui il grande Elvis Presley si esibisce all’ “Ed Sullivan Show”. Abbagliato dal folgore di quell’incontro, Bruce Springsteen decide che quella sarebbe stata la propria strada e nel 1963 acquista la sua prima chitarra acustica, prendendo lezioni dal cugino. Affascinato dal rock, entra nella band “The Rougues” per poi cambiare e diventare membro della formazione “The Castiles”. In seguito allo scioglimento dei “Castiles”, trascorre alcuni anni all’università, ma torna alla musica formando una nuova band con i compagni di campus, “Earth”, che pure si scioglie in poco tempo. Nel 1971 si trasferisce a New York, nel mitico Greenwich Village, dove sulle orme di Bob Dylan cerca di sfondare come cantautore folk.
Nasce la band definitiva di Bruce Springsteen, la “E Street Band”. Nonostante la collaborazione stabile con la band, è singolare che si siano sempre presentati al pubblico separatamente come “Bruce Springsteen & the E Street Band”. Tuttavia è in questi anni che Bruce dà vita ai suoi primi lavori: Greetings From Asbury Park / The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle, entrambi pubblicati nel 1973. Con la pubblicazione del secondo lavoro l’evoluzione musicale di Springsteen appare innegabile: vi sono contaminazioni sonore con il jazz e il rock supportate da una E-Street Band, non ancora definitiva, che vede Vini Lopez alla batteria e David Sancious alle tastiere.
Luci e ombre nelle canzoni di Bruce Springsteen. “Dancing in the dark”
Nell’agosto del 1975 giunge nei negozi il lavoro che scaglia verso un definitivo successo: “Born to run” di Bruce Springsteen. Dalla lettura profonda delle nuove canzoni che compongono l’album, traspare un topos tipicamente springsteeniano. Il grigiore e la stanchezza della vita quotidiana di ogni emarginato della working class possono essere riscattati grazie alla possibilità della fuga, reale o fittizia che sia, verso un mondo migliore.
«Wendy, fammi entrare, voglio essere tuo amico/Voglio proteggere i tuoi sogni e le tue fantasie/Accavalla le gambe su questi sedili di velluto/E reggiti forte/Insieme potremo rompere questa trappola/Correremo fino a cadere, piccola, non torneremo mai indietro/Camminerai fuori con me sul cavo/Perchè piccola, sono soltanto un viaggiatore spaventato e solo/Ma voglio sapere come ci si sente/Voglio sapere se il tuo amore è selvaggio/Ragazza, voglio sapere se l’amore è vero».
“The wire” è il cavo su cui cammina il funambolo ed è rappresentazione metaforica della precarietà dell’equilibrio della vita, una corda lungo la quale il protagonista si accinge ad avanzare con estrema cautela. Per fronteggiare al meglio le sue paure necessita dell’aiuto di una donna. E a quel filo fatto di precarietà, grigiore e incertezza della vita quotidiana si lega fortemente “Dancing in the dark” di Bruce Springsteen.
«Mi alzo dal letto la sera/ e non ho nulla da dire / rientro a casa la mattina/ vado a dormire con la stessa sensazione/ non ho nulla,/ sono solo stanco amico, / sono solo stanco e stufo di me stesso / hey piccola, mi servirebbe solo un piccolo aiuto».
Il grigiore nasce da una condizione di apatia estrema, derivante dal senso d’oppressione che la quotidianità – col suo eterno ripetersi – genera nella persona. La via di fuga è sempre la stessa e Bruce la canta con toni sicuri in questo brano. La voglia di cambiare se stessi, il proprio modo di vestire, di approcciarsi alla vita, e il mondo che c’è intorno. È un desiderio grande che richiede enorme coraggio. C’è bisogno della scintilla per accendere il fuoco.
«Non puoi accendere un fuoco/ non puoi accendere un fuoco senza una scintilla/questo fucile è in affitto/ anche se stiamo danzando nell’oscurità ».
Il velo sottile e sotteso, pregno di malinconia e solitudine è lo stesso che attraversa il brano “Streets of Philadelphia” di Bruce Springsteen, colonna sonora dell’omonimo film “Philadelphia”, con Tom Hanks e Denzel Washington. Bruce ci pone di fronte all’impossibilità di riconoscere se stessi, a un senso di abbandono da parte di volti amici -nella rappresentazione cinematografica rappresentano la conseguenza della scoperta di una malattia dolorosa, l’AIDS-. Risulta comunque piuttosto semplice empatizzare con le parole del boss, per tutte le volte che, adagiati su un letto, sentiamo noi stessi svanire e la realtà con noi mentre cerchiamo appiglio in quella ragione ormai offuscata, a cui chiediamo un pizzico di lucidità per affrontare il dolore.
«Ho camminato sulla strada fino a quando le mie gambe sembravano pietra/Ho sentito voci di amici spariti e andati/Di notte sento il sangue nelle mie vene/Nero e mormorante proprio come la pioggia».
Bruce Springsteen odia “il boss”
Il soprannome Bruce Springsteen “The Boss” è nato durante gli anni di passione e rock’n’roll nelle “Streets of Fire” del Jersey Shore, quando il giovane Bruce suonava sempre e dovunque, perché non c’era altro modo per provare a sovvertire ufficialmente il proprio destino e a condurlo verso la direzione che prediligeva. Ma a Bruce Springsteen non è mai piaciuto essere chiamato “The Boss”.
«Odio la figura del Boss, il capo che ci comanda in genere. Ad essere sincero, odio anche essere chiamato The Boss».
Il soprannome è inevitabilmente rimasto nel tempo, mentre Bruce diventava a poco a poco il leader indiscusso della sua band. Persino John Lennon, nella sua ultima intervista del 5 dicembre 1980, ha parlato di Bruce e del successo enorme che gli ha stravolto la vita, un successo che va di pari passo con la grandezza di quel soprannome.
«Dio aiuti Bruce Springsteen quando qualcuno deciderà che non è più un Dio. Un giorno dovrà affrontare il suo stesso successo, dovrà provare di essere il migliore giorno dopo giorno, invecchierà e tutti saranno pronti a dargli addosso. Gli auguro di riuscire a sopravvivere».
Il nuovo album “Letter to you”
A riprova delle altezze musicali di cui è capace Bruce Springsteen, c’è sicuramente il recente disco “Letter to you”, pubblicato il 23 ottobre 2020. Licenzia un album quasi necessario all’ascolto tanto è ferocemente attuale. Scrivendo di sé, dell’invecchiamento, Springsteen disvela prospettive e timori comuni nell’età moderna. I timori dell’uomo di era-Covid, un uomo le cui certezze si sono capovolte, se non dissolte, nel giro di pochi mesi, verso una situazione nuova destinata a durare nel tempo. E non c’è cosa peggiore che assistere, giorno dopo giorno, all’affievolirsi di certezze faticosamente messe in piedi nella precarietà dell’esistenza.
“One minute you’re here”, lirico e meditabondo, è canto della solitudine dell’esistenza. Viene fotografata tra ricordi struggenti e dolorose prese di coscienza, sottolineata da versi espliciti come «Pensavo di sapere chi sono, ma mi sbagliavo / Un minuto ci sei, un minuto dopo non esisti più». La piena e dolorosa consapevolezza, tipica dei testi springsteeniani, non necessariamente sfocia nel più grosso pessimismo. “The power of prayer”, difatti, è una risposta al brano precedente e si concentra sul potere della preghiera volto a infondere speranza.
Il filo lungo il quale si muove Bruce è altalenante, spazia tra prese di coscienze, malinconie e messaggi di speranza. Nel mondo di musica del boss, pensiero, energia ed emozione risulteranno sempre il trinomio vincente.
La vita. Breve sinossi
Bruce Springsteen è nato in New Jersey, ma ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza nella vicina Freehold, cittadina operaia dell’entroterra. Il padre, Douglas Frederick, aveva ascendenze irlandesi e olandesi, mentre sua madre, Adele Ann Zirilli (o Zerilli), è di origine italiana, proveniente da una famiglia emigrata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento da Vico Equense, nei pressi di Napoli.
Da qui l’attaccamento di Bruce verso questa meravigliosa terra. Gli Springsteen ebbero altre due figlie, Virginia e Pamela, poi attrice e fotografa di successo. Bruce è cresciuto in una famiglia della cosiddetta working class, spesso in condizioni economiche precarie. Suo padre è stato costretto di frequente a cambiare lavoro e alloggio, insieme a tutta la sua famiglia. Dalle sue umili origini, difatti, spiccano il volo la maggior parte delle tematiche approfondite nei suoi potenti brani musicali.