
Toscano doc, classe ’86, chioma riccia e spirito rock’n’roll. Stiamo parlando di Francesco Motta, in arte Motta, il cantautore dal talento cristallino, il musicista graffiante e dall’identità forte, che è diventato il portabandiera del nuovo/vecchio che avanza nel panorama indipendente del Paese.
Cresciuto a pane e chitarre elettriche ha un passato da frontman e batterista della band punk/new-wave Criminal Jokers. L’evoluzione rapidissima di Motta passa per alcuni dei più prestigiosi palchi e concorsi sin dall’esordio da solista, quando nel 2016 con l’album “La fine dei vent’anni” (Woodworm) vince il premio “Opera prima” alla Targa Tenco. Sorte analoga per il secondo album, “Vivere o Morire” (2018, Sugar), premiato alla Targa Tenco come “Miglior disco in assoluto”.
Il 2019 e la consacrazione di Motta al grande pubblico
Ma è il 2019 l’anno della definitiva consacrazione. Recentissima infatti l’apparizione in “Faber Nostrum” in cui, assieme ad alcuni dei volti più noti della scena indie, ha coverizzato “Verranno a chiederti del nostro amore“, uno dei 15 capolavori di De André presenti nel chiacchieratissimo disco uscito il 26 Aprile scorso per Sony Music/Legacy. Chiacchierato quasi quanto la recente lovestory tra il trentatreenne toscano e l’attrice Carolina Crescentini, con la quale si vocifera si sia addirittura segretamente sposato in una location tenuta nascosta ai media. Voci che rafforzano l’alone da rockstar che circonda Motta e che negli ultimi mesi hanno aiutato l’esponenziale crescita del suo pubblico. Ma è soprattutto con la partecipazione alla 69esima edizione del Festival Di Sanremo, col brano “Dov’è l’Italia”, che il talentuoso musicista ha guadagnato grandissima parte della notorietà del momento.
“Dov’è l’Italia”, classificatasi 14esima nel carrozzone nazionalpopolare, è una «canzone nata tra New York e Lampedusa» in cui Motta descrive «con lucidità un Paese che amo ma che mi preoccupa per certe cose». E non c’è palcoscenico migliore dell’Ariston di Sanremo per urlare la propria preoccupazione, per cercare di far riflettere e far dialogare. Con un testo a cavallo tra una narrazione talvolta didascalica e puntuale ed una più profonda introspezione, scava e scende dentro i sentimenti più nascosti e indecifrabili, andando a toccare quel malessere che l’attualità suscita nell’animo dei più sensibili.
Il malessere generazionale in “La fine dei vent’anni”
Linee guida sono il didascalismo e l’ermetismo, non rari nella poetica di Francesco Motta e peculiarità di gran parte della sua produzione. Si assiste al disagio esistenziale di un’intera generazione con il suo singolo di esordio “Prima o poi ci passerà”. L’uso di metafore ed esempi pratici punta la lente di ingrandimento su paure tangibili e astratte paranoie. Ma il cantautore scava ancora più in profondità con “La fine dei vent’anni“, raccontando il malessere di chi si sente sempre in ritardo e si appresta, malvolentieri, ad abbandonare quel tanto caro e rassicurante numero 2, segno di un’età priva della spensieratezza di cui si vorrebbe godere.
Un’altra prerogativa della riflessione portata avanti dal giovane cantautore nel corso della sua carriera è il fascino per il dualismo. Lo si può notare in “Sei bella davvero” con la descrizione di una giovane donna, indagata nei suoi aspetti più contraddittori. Morbide pennellate dipingono la sua esteriorità esplosiva e travolgente, ma anche una profonda interiorità, attraverso piccoli dettagli che non tutti riescono a notare. Un dualismo che è ben identificabile anche nell’inno generazionale “Del tempo che passa la felicità“. L’inafferrabilità di un attimo effimero, descritto come tensione e inganno tra speranza e rassegnazione di chi forse è stanco di porsi troppe domande.
I legami e i sentimenti in “Vivere o morire”
Nell’album “Vivere o morire” Francesco volge la sua attenzione maggiormente alla sfera emotiva e ai diversi tipi di rapporti che si intessono tra le persone. Un ragionamento che diventa quasi cinico in “Ed è quasi come essere felice”, dove tra insofferenza e sopportazione viene descritta l’atteggiamento di chi accetta con angosciosa pazienza regole che detesta. Ci si copre gli occhi pur di continuare il percorso che non si ha il coraggio o la forza di cambiare.
Gran parte della vita delle persone ruota intorno i legami che le legano agli altri, così Motta celebra con “Quello che siamo diventati” il momento dell’incontro, della scoperta, dell’intreccio delle vite, delle evoluzioni e dei cambiamenti. Mentre si giunge alla consapevolezza dell’inevitabile rompersi dei rapporti con “La nostra ultima canzone”, testimonianza di un addio che seppur concordato ed annunciato, resta denso di ripensamenti taciuti e indecisioni nonostante il riconoscimento della sua necessità. Storie e legami si infrangono definitivamente in “Chissà dove sarai”, con tormentati pensieri che fanno male, un male insopportabile, e che per questo sono solo sussurrati. Pensieri che dilaniano, come immaginare la persona amata lontana ed innamorata di qualcun altro, che non siamo più noi. Pensieri che destabilizzano, come i sensi di colpa ed il rimpianto di chi non ammette che probabilmente avrebbe potuto fare qualcosa di più.
Perché Motta è gioia e dolore, speranza e rassegnazione, amore e perdita. È come il più romantico dei contrasti: perché è rock, quello urlato, quello delle chitarre elettriche, delle batterie incalzanti. Così come è anche cantautorato, quello melodico, sottovoce, che colpisce dritto al centro del bersaglio delle emozioni. Proprio lì dove, forse, servirebbe di più a tutti noi.