L’incompiuta “Turandot” di Puccini. Tre enigmi, gelo e passione

L'incompiuta Turandot di Puccini

Vi siete mai chiesti in quale opera si canta “Vincerò”? Le note di quest’aria hanno sfidato e sfidano le ugole di grandi tenori e dei meno famosi, sono coronamento di spettacoli musicali o competizioni sportive e tutti ricordano l’esibizione dei tre Tenori Domingo, Pavarotti e Carreras nel 1990 nella magica atmosfera di Caracalla. Non tutti sanno che in verità “Vincerò” appartiene all’aria “Nessun dorma” intonata da Calaf nella “Turandot” di Giacomo Puccini.

“Turandot” avrebbe dovuto essere il compimento della sua opera omnia, la sublimazione della sua poetica lirica ma purtroppo rimase incompiuta. Puccini vi aveva infatti lavorato fino a poco prima di morire. Tristemente profeta della sua fine, incontrando Arturo Toscanini -che avrebbe dovuto dirigere la prima dell’opera-, gli aveva detto che la sua “Turandot” sarebbe rimasta incompiuta e che il direttore d’orchestra, fermandosi, avrebbe dovuto dire:

«Qui il Maestro è morto»

La cosa puntualmente avvenne alla prima della Scala, il 25 aprile del 1926, quando il Maestro Toscanini depose la bacchetta e declamò quelle parole. Non avrebbe mai più diretto “Turandot”.

La nascita della “Turandot” di Puccini. Esordio nel racconto fiabesco e rivisitazioni

Puccini non conosceva la fiaba teatrale che Carlo Gozzi, ideatore di questo genere letterario, scrisse nel 1762, ispirandosi ad un racconto persiano che aveva per protagonista la principessa Khutullin – Raggio di luna, personaggio leggendario o forse realmente esistito. Raggio di luna era figlia di un condottiero mongolo, valente amazzone e combattente lei stessa. Sfidava a tenzone i suoi pretendenti, scegliendo alfine quello di suo gradimento -scelta rivoluzionaria per quei tempi-. Puccini con lo scrittore teatrale Renato Simoni e il librettista Adami iniziò a lavorare alla “Turandot” dal 1920, quella che risulterà essere forse la più travagliata delle sue composizioni.

Per la prima volta Giacomo Puccini non si rifaceva ad un soggetto storico o legato alla vita reale, ma si cimentava nel mondo del racconto fiabesco. Ha sviluppato la sua Turandot in un particolare intreccio di esotismo e drammaticità per esplorare le ulteriori sfaccettature dell’amore, Leitmotiv della lirica pucciniana.

Il suo intento era di semplificare la fiaba teatrale e di «esaltare la passione amorosa di Turandot che per tanto tempo ha soffocato sotto la cenere del suo grande orgoglio». Sarà una Turandot moderna, piena di pathos, ma anche «una Turandot attraverso il cervello: il tuo (ndr, di Simoni), d’Adami e il mio». L’opera sarà divisa in 3 atti e 5 quadri, più snella nell’evoluzione scenica e nel numero dei personaggi rispetto alla fiaba originale.

Quali sono i tre enigmi di Turandot? E perchè Edipo?

La forte carica simbolica dell’opera e la dimensione del mito si esplicano nei tre enigmi che richiamano Edipo (Calaf) e la mostruosa Sfinge ( Turandot). Come nella mitologia classica La Sfinge interroga Edipo sulla natura dell’uomo, così accade tra Turandot e Calaf. Il primo ebbe la miopia di intendere la domanda come un semplice indovinello, senza capire che nell’interrogativo si celava la sua storia e il suo destino. Meno letterale e immediato è invece Calaf, che intuisce un senso più profondo delle domande poste.

I tre enigmi che Turandot gli propone, però, non riguardano realmente la persona di Calaf (come nel caso di Edipo), ma se stessa. Le soluzioni sono la speranza, il sangue e il suo stesso nome. Ecco che in realtà il riferimento simbolico va alla speranza che la stessa Turandot ha perso, bloccata e congelata nei propri risentimenti, incapace di lasciar fluire il sangue della passione e delle emozioni. La regina è il suo rango, non più il suo nome o la sua identità, che non riesce più a comprendere proprio a causa dell’immobilismo algido che la contraddistigue.

Calaf risolve quindi i tre enigmi, ma non su di lui, quanto sulla sua stessa sfidante. Si tratta pur sempre di enigmi sull’identità umana, ma per Edipo su se stesso e per Calaf sulla Turandot.

La storia della “Turandot” di Puccini densa di significati esoterici e simbolici

Ci sono interpretazioni esoteriche e continui parallelismi simbolici nel rapporto tra Calaf (il Sole), Turandot -che significa “Luna”- e Liù (Terra materna e benefica). Proprio Liù contribuisce alla vittoria della luce sulle tenebre fino al disvelamento del nome del principe straniero, impronunciabile come quello della divinità. Vero soggetto della “Turandot” è il mistero che si evolve nei quesiti della principessa e di Calaf. Si sublima nell’amore che è passione ardente nel principe tartaro, sacrificio e dono per Liù e scioglimento dell’algida tenebra in Turandot.

Contrariamente al solito Puccini, qui non c’è il microcosmo-coppia sullo sfondo di un mondo esterno. La protagonista non è passionale e fremente come Tosca. È una fredda principessa che, nominata fin dall’inizio, si rivela finalmente e silenziosamente soltanto alla fine del 1° atto, dando morte con un solo gesto al principe di Persia, reo, come innumerevoli altri, di non aver indovinato i suoi enigmi. L’apparizione – quasi una visione ipnotica – folgora Calaf che pure prima accusava la principessa di crudeltà. La sfida, affascinato come per un sortilegio dalla sua “divina bellezza”.

Turandot, Calaf e Liù. Ma anche Ping, Pong, Pang e la folla

Il personaggio di Liù, il più caro a Puccini e da lui creato -non era presente nell’opera di Gozzi-, richiede capacità interpretative e canore non indifferenti. Nel 1° atto si rivela per la prima volta con il suo impegnativo e dolce “Signore ascolta” rivolto a Calaf (sublime il filato del finale).

Conquistano la scena i ministri dai nomi esoticamente risibili, Ping, Pong e Pang, figure grottesche rubate alla commedia dell’arte. Fortemente voluti dallo stesso Puccini -contrariamente ai librettisti-, danno emozione, colore, ritmo ed intensità allo svolgimento dell’opera. Sul sottofondo di melodie tipiche orientali -ricercate e rielaborate dall’Autore- hanno una funzione di collegamento tra le varie parti. Strumenti sadici della malvagità della loro principessa, ironici avversatori dell’amore dei principi sfidanti, rivelano al fine un animo sensibile, che li fa sospirare la “casa nell’Hunan , col suo bel laghetto blu”. Le lusinghe e le minacce di Ping, Pong e Pang comunque non riescono a fermare Calaf e con i ridondanti colpi di gong si conclude il primo atto.

Una citazione a parte merita la folla che non funge solo da sfondo o da coro, ma assurge ad un ruolo di protagonista. Si ricorda l’invocazione alla luna (“Perchè tarda la luna?”, Turandot), ove la tensione cresce ai limiti di un’allucinazione collettiva, o la richiesta di pietà per il principe di Persia. Spettacolare la scena che gradualmente si riempie dinanzi all’imperatore a ritmo di marcia. Qui si sbizzarrisce la fantasia orchestrale di Puccini, che culmina nel coro entusiasta “Diecimila anni al nostro imperatore”.

L’armoniosa mescolanza di aspetti antitetici

In tutta l’opera gli aspetti antitetici si mischiano in un crescendo fino a raggiungere l’apoteosi nella metamorfosi finale di Turandot. Vita e morte, gelo e passione. Emblematiche le frasi che si intrecciano nell’interpretazione dei protagonisti.

«Gli enigmi sono tre, la morte una – dice Turandot
Gli enigmi sono tre, una è la vita! – risponde Calaf»

Turandot figura eterea, intangibile, sacrale. Nello splendido assolo “In questa reggia” si scopre il motivo della promessa strappata al padre. Turandot decide di sottoporre i tre enigmi ai pretendenti, pena la morte, per vendicare al sua ava uccisa dai principi stranieri. La principessa raggiunge il culmine dell’affermazione della sua sacra intangibilità con il suo “Mai nessun m’avrà”, ma quando Calaf svela i tre enigmi, si annichilisce in una pigolante implorazione al padre di non concederla allo straniero. Commosso, Calaf pone lui un enigma a sua volta; se la principessa indovinerà il suo nome entro l’alba lui sarà ucciso.

Il 3° atto si apre con le voci del popolo che invocano il nome dello straniero per scampare alla morte. Qui si innesta quella che sarà una delle più belle arie d’opera, forse il più bell’assolo per tenore di Giacomo Puccini.  Calaf interpreta “Nessun dorma” all’inizio del terzo atto, in un crescendo che culmina con il presagio della sua vittoria in una triplice serie di acuti potentissimi.

La “Turandot” di Puccini sul valore dell’amore-sacrificio

A questo punto Liù, l’umile schiava innamorata, ruba la scena alla gelida principessa che vuole estorcerle il nome dello straniero con la tortura. “Tu che di gel sei cinta”, una delle più belle arie d’opera, richiede una grande potenza canora e grandi doti interpretative al soprano, costituisce il momento di maggiore tensione drammatica. In quest’aria per Liù, la sua preferita, Puccini si fa librettista: infatti sue sono le parole che pronuncia inizialmente la dolce fanciulla.

Si crea una triade che vede da una parte Turandot -gelida negazione dell’amore– e dall’altra Calaf -amore ardente e appassionato-; al centro l’umile ancella-amore come sacrificio e rinuncia-. Apparentemente sconfitta dalla sua posizione sociale e dall’amore non ricambiato, Liù si dà la morte per salvare l’amato e per donargli Turandot. In realtà esce vincitrice dal confronto con Turandot e, col suo struggente commiato e l’estremo sacrificio d’amore, dà una picconata al gelo che cinge il cuore della principessa.

Qui finisce la “Turandot” di Puccini, nel senso che l’Autore non sopravvisse alla sua amata Liù. Il Maestro si era arenato al duetto finale tra Turandot e Calaf, la chiave di volta dell’intreccio al quale non riusciva a dare forma. Dopo il bacio appassionato di Calaf, avrebbe voluto «che si sciogliesse il suo ghiaccio (ndr, di Turandot) nel corso del duetto». E fu proprio questo duetto finale, che per lui avrebbe costituito il momento clou dell’opera, ad avergli «messo l’animo in grande angustia». Avrebbe voluto condurre il pubblico all’evoluzione psicologica della protagonista, passare dal “non profanarmi” al “sentirti viva”. Tra gli appunti c’erano splendide idee melodiche, come “Mio fiore mattutino” di Calaf dopo il bacio.

Puccini voleva fortemente rinnovare il melodramma italiano ed il duetto avrebbe dovuto costituire il raggiungimento di tale scopo, con le sue valenze psicologiche. Ed era questo che lo tormentava.

Quale enigma dovrà risolvere Turandot prima dell’alba? Il finale per sempre irrisolto

Giacomo Puccini portò con sé a Bruxelles 36 pagine di partitura disposte su 23 fogli di appunti ai quali lavorò fino a quando potè. È commovente pensare che i suoi ultimi pensieri furono per la sua ultima opera incompiuta. A terminare la “Turandot” furono il compositore napoletano Franco Alfano con i librettisti e Tonio, il figlio di Puccini. Fu Toscanini a consigliare di affidare il compito, arduo e improbo nonostante gli appunti lasciati dall’Autore. Alfano si discostò molto da Puccini. La parte finale nella prima versione risente del gusto di Alfano e subì numerosi tagli, ed è quella più breve la versione corrente che viene riprodotta nei maggiori teatri lirici del mondo.

«Gli enigmi sono tre; la morte è una.» – Il finale è l’ultimo enigma di Turandot

Non sapremo mai come Giacomo Puccini avrebbe terminato la sua “Turandot”, se avesse previsto dei colpi di scena e come avrebbe sviluppato il duetto finale. Chissà come avrebbe concluso l’opera, se avrebbe apprezzato il magniloquente finale di Alfano, che enfatizza il tema del “Nessun dorma”. È questo l’ultimo ed il più doloroso enigma della Turandot che, a differenza degli altri, non potrà mai essere svelato.

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