
La “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni è stata creata in occasione di un concorso per opera in atto unico, bandito da Sonzogno nel 1888. Quando decise di parteciparvi, terminando il suo lavoro soltanto il giorno precedente la scadenza, mai avrebbe immaginato che quest’opera gli avrebbe dato fama immortale. Rifacendosi alla novella omonima di Giovanni Verga e avvalendosi del supporto dell’amico poeta e professore Giovanni Fargioni-Tozzetti e di Guido Menasci, Mascagni firmava la prima vera affermazione di Verismo nella lirica.
Rocambolesco fu il “confezionamento” della “Cavalleria rusticana”, con lo stimolo continuo della scadenza a breve termine del concorso e i librettisti che lavoravano per corrispondenza, inviando a Mascagni i loro versi scritti su cartoline. “Cavalleria Rusticana” si piazzò tra le prime tre opere partecipanti e venne rappresentata per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro “Costanzi” di Roma. Un successo immediato e senza precedenti. Pietro Mascagni, che non aveva mai concluso gli studi al Conservatorio, dissentendo sui metodi d’insegnamento, assurgeva al livello dei grandi compositori come Giacomo Puccini, suo corregionale, col quale aveva condiviso una stanza per qualche tempo. Unica nota stonata, la causa per plagio intentata e vinta da Giovanni Verga.
“Cavalleria Rusticana” è l’unica vera e propria opera verista di Mascagni, il suo più grande successo per il quale venne definito “one opera man” –al pari di Ruggiero Leoncavallo con “Pagliacci”, altro atto unico quasi sempre associato al capolavoro mascagnano-.
Con la “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni i vinti diventano protagonisti dell’opera lirica
Il Verismo aveva scardinato i cliches letterari, facendo erompere dalle pagine scritte le vite degli umili, del popolo, dei “vinti” verghiani. Per la prima volta assurgevano al ruolo di protagonisti, quali non erano mai stati pur con qualche eccezione. Allo stesso modo Mascagni nella “Cavalleria Rusticana” sceglie i personaggi del suo dramma tra persone del popolo, con lo sfondo di una Sicilia presa dal vivo, quasi un set cinematografico.
Nell’opera lirica per la prima volta con Mascagni il popolo si fa protagonista, erompendo a forza tra principi, condottieri e nobildonne, con le sue vicende carnali e passional. Prima, nonostante la pur grande e corale partecipazione popolare, i protagonisti dei drammi operistici non erano mai stati personaggi del popolo. Fu questa una delle chiavi del grande successo della “Cavalleria Rusticana”.
Nuovo anche il modo di esprimersi dei personaggi, un linguaggio essenziale ed efficace, un recitativo non convenzionale, con i protagonisti che raccontano le loro vicende ed esprimono i loro sentimenti esponendosi al pubblico, come in una rappresentazione teatrale. Le scene sono rapide, i dialoghi nervosi e scattanti, tuttavia Mascagni non abbandonò del tutto il melodramma e la distribuzione convenzionale dei ruoli.
La vicenda si svolge il giorno di Pasqua in un paesino siciliano, che potrebbe essere la Vizzini di verghiana memoria. Il semplice pretesto della gelosia genera un’opera maestosa e ricca di sfaccettature sentimentali. Turiddu e la bella e vezzosa Lola, già promessi prima della partenza di lui e nonostante le nozze di lei con compare Alfio, rivivono nell’ombra la loro passione mai sopita.
Analisi e significato della “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni. Il dramma della gelosia si fa lirica
Straordinario effetto, dopo un preludio strumentale classico, fa la serenata in dialetto siciliano “Lola ch’ai di latti la cammisa” che Turiddu dedica alla sua amata , con l’accompagnamento della discreta melodia dell’arpa. Questa serenata, come ogni aria, come ogni romanza in “Cavalleria Rusticana”, è un pezzo musicale in sé concluso, che potrebbe essere eseguito a prescindere dell’opera stessa.
Santuzza, l’attuale fidanzata che “s’è data” a Turiddu e da lui respinta, in un drammatico duetto, rosa dal tarlo della gelosia, rivela la verità ad Alfio che giura vendetta. Subito dopo la donna, pentita, tenta invano di fermare la valanga di odio che ha generato. Già si intuisce il drammatico epilogo.
Suonano a festa le campane di Pasqua, gioisce il popolo riunito in piazza. “Inneggiam, il Signor non è morto” è un canto che potrebbe benissimo essere cantato nella vita reale, espressione della coralità della partecipazione della gente del popolo sullo sfondo della tragedia centrale. La sacralità dei riti della Santa Pasqua si contrappone alla carnalità del dramma di passione e gelosia, onta e vendetta che si va preparando.
Turiddu invita tutti a festose libagioni, cantando “Viva il vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante”, inebriato dalla passione per Lola, in quella che potremmo definire una musica di scena.
La serpe della gelosia, instillata da Santuzza, vive nel petto di compare Alfio, che rifiuta il bicchiere offerto dal rivale, perché quel vino per lui “diventerebbe veleno”. L’atmosfera si cristallizza in una tangibile cortina d’odio. Turiddu morde l’orecchio di compare Alfio: la sfida appena lanciata è stata accettata, tra lo sgomento generale.
La solenne levità dell'”Intermezzo”
Tra i due tempi di carnale e tragica bellezza, si inserisce la solenne levità del celeberrimo “Intermezzo”. La carezza soave degli archi è preludio di pace in mezzo alla tempesta che si sta addensando, il pizzicare dell’arpa accompagna lieve l’espansione dell’assoluto che lievemente si spegne. Ampi squarci sinfonici si alternano ad una irruente vena di canto. Tristemente presago, Turiddu, prima di recarsi al luogo della sfida, invoca su di sé la benedizione dell’anziana madre, “come quel giorno che partii soldato”, e le affida Santa, che senza di lui resterebbe senza onore e abbandonata.
Il pathos raggiunge il suo acme quando Turiddu chiede alla madre di pregare per lui, e le chiede un bacio, un altro ancora. Le parole “S’io non tornassi” suggellano lo straziante commiato, accompagnate dal forte orchestrato. Geniale la conclusione dell’opera, scandita da quattro scarne parole che risuonano drammaticamente nel silenzio scenico.
«Hanno ammazzato compare Turiddu!»
Una donna celata grida, mentre la madre di Turiddu, come una Madonna Addolorata, stringe tra le braccia la disperata Santuzza. Grande è l’effetto drammatico. Non è più Pasqua, ma Venerdì Santo. Cristo è risorto, ma una giovane vita è stata stroncata ed il sipario si chiude su una scena di corale compianto.
Un’opera sempre viva
Paradossalmente l’enorme successo della sua prima opera fu una condanna per Pietro Mascagni. Si sentiva costretto a fare sempre meglio, spinto da grandi ambizioni e dalla continua sperimentazione. Si dette ad un eclettismo indugiante nel simbolismo, che non giovava all’accessibilità delle sue opere successive al pubblico. Si aggiungevano poi le difficoltà di esecuzione e dei ruoli delle opere successive. Eppure Mascagni quando abbandonava il simbolismo e si riavvicinava alla tradizionale drammaturgia, pur senza eguagliare il trionfo di “Cavalleria Rusticana”, ebbe grande successo di critica e di pubblico. È il caso di “Iris” e de “L’amico Fritz”.
Da ricordare che Pietro Mascagni, sempre aperto al nuovo, fu il primo compositore in Italia a scrivere per il cinema muto, componendo la colonna sonora del film “Rapsodia satanica”. L’adesione al fascismo inoltre gli aveva alienato molte simpatie, tanto che alla sua morte, nel 1945, gli furono negati i funerali pubblici.
“Cavalleria Rusticana” intanto continuò il suo vittorioso viaggio nei teatri di tutta Italia e del mondo. Il 5 marzo 1940, in apertura delle celebrazioni mondiali per il 50enario della prima dell’opera, Mascagni la diresse al Teatro dell’Opera di Roma (ex Costanzi). Il Maestro avrebbe altresì diretto la sua celeberrima opera al teatro Goldoni di Livorno, sua città natale, il 10 dicembre 1940 a chiusura delle celebrazioni del 50enario. Alla sua morte nel 1945, la “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni era già stata rappresentata, solo in Italia, più di 14000 volte. Ancora oggi continua a mietere grande successo di pubblico in tutte le sue numerose esecuzioni.