
La storia, l’evoluzione e, soprattutto, il contenuto dei libretti d’opera mi hanno sempre intrigato. L’arte scrittoria librettistica è un genere letterario di cui si occupano solo gli specialisti in quanto, nelle pubblicazioni divulgative, l’argomento non viene quasi mai trattato e, se anche proposto in qualche specifica occasione, non viene poi approfondita come merita l’arte del librettista.
Nella critica musicale la fanno da padrone le varie analisi sulle partiture, sulla direzione d’orchestra, sull’interpretazione dei cantanti, sulla regia e sulla scenografia. Nessun accenno ai testi, sia perché si danno per scontati, sia perché si conferisce loro una funzione ancillare, di complemento alla Musa sublime della musica e del canto. Questo è vero fino a un certo punto. Non ci sarebbero capolavori senza la sinergia tra parola e musica, tra metrica e note, il tutto armoniosamente predisposto attraverso il lavoro lungo e faticoso portato avanti dal compositore e dal librettista.
Per confezionare libretti d’opera c’è bisogno di una peculiare tecnica di scrittura, un po’ come succede per la stesura di testi teatrali e persino di sceneggiature filmiche. Oltre a questo bagaglio basico, occorre avere solida cultura, sensibilità e una talentuosa vis poetica. I versi letterari, relativi ad un soggetto classico in genere individuato dal compositore, devono costituire, per dirla con Verdi, una congrua sequela di “parole sceniche” perfettamente funzionali all’azione teatrale, in armoniosa rispondenza col principio del “recitar cantando”.
Le arie, i duetti, i concertati e i recitativi, sono tutte forme che devono conservare sempre “un’espressione drammatica” e non già meramente didascalica. La poesia melodrammatica, nata nell’epoca barocca con il genio di Metastasio, si imporrà da subito come codice linguistico pronto ad evolversi in varie cifre stilistiche dettate dal gusto delle varie epoche, sempre osservando il criterio base della perfetta corrispondenza tra unità frasale e verso funzionale alla scansione melodica. Compito abbastanza arduo assolto solo da grandi verseggiatori. Questa mia affermazione è provata dal fatto che molti librettisti di talento sono stati fior di letterati e di poeti. Andiamoli a ricordare…
Libretti d’opera. Dall’epoca barocca al ‘700 dei merletti musicali con Metastasio
Gli autori di Claudio Monteverdi: Gian Francesco Busenello, Ottavio Rinuccini e Alessandro Striggio. Il poeta e saggista veneziano Busenello compose il libretto de “L’incoronazione di Poppea” musicata dal Monteverdi, ma anche vari libretti per le opere di Francesco Cavalli. L’accademico fiorentino, drammaturgo e poeta, Ottavio Rinuccini, scrisse per Monteverdi i testi per le opere “Arianna” e “Il ballo delle ingrate”. Il librettista mantovano Alessandro Striggio è noto per aver stilato l’apprezzato ”Orfeo”, la prima opera composta dal musicista cremonese.
Per i musicisti di Pietro Metastasio il rapporto si rovescia. Il divo è il librettista e i comprimari sono i musicisti. Il Metastasio -nome d’arte datogli dall’accademico Gian Vincenzo Gravina-, in realtà si chiamava Trapassi, era romano ed è una figura di alto profilo, uno dei protagonisti della letteratura italiana arcaica.
La sua prima opera, la “Didone abbandonata”, “dramma per musica”, è scritta nel 1724 con composizione di Domenico Sarro. Nel 1730 l’abate Pietro Metastasio viene chiamato a Vienna presso la corte di Carlo VI diventando “il poeta cesareo”. Qui si ferma per tutta la vita componendo altre straordinari libretti d’opera, quali ”Demetrio” e “Olimpiade”, musicate entrambe da Antonio Caldara. Nel 1971 e nel 1975, compone i testi per due opere di W.A. Mozart, “Il sogno di Scipione” e “Il re Pastore”.
Il suo lavoro è talmente importante che gli viene riconosciuto il merito della prima importante riforma del melodramma. I versi del Metastasio non solo sono molto musicali, ma sono anche scritti in un linguaggio chiaro, cantabile, strutturato in forma di brevi strofe che aiutano a creare un importante equilibrio tra la musica e la parola. Questo risultato, oltre ad essere frutto di talento puro, deriva anche dalla precipua caratteristica della lingua italiana la quale è un “docile idioma” -definizione dello stesso Metastasio- atto ad accompagnarsi alla musica. Si parva licet… Se è lecito azzardare un paragone con l’era moderna e i suoi cantori più rappresentativi, mi verrebbe da dire che Pietro Metastasio fu… il Mogol della sua epoca…
Il felice connubio tra Mozart e il librettista Da Ponte
Una delle coppie artistiche più felici nell’ambito della produzione di opere liriche di ogni tempo fu senza dubbio quella formata da Wolfang Amadeus Mozart e Lorenzo Da Ponte. Insieme collaborarono alla realizzazione dei capolavori della superlativa trilogia “d’amore e morte”, secondo la definizione dello stesso Da Ponte: “Don Giovanni” (1787), “Le nozze di Figaro” (1788) e “Così’ fan tutte”( 1790), le “Tre sorelle”. Tutte grandi lezioni in musica sulla psicologia dell’amore, sui costumi sociali, sui temi della giustizia umana e divina.
Poiché in questa sede non mi è possibile analizzare le tre opere, mi limiterò, come esempio, a parlarvi sommariamente solo dell’ultima delle tre, la più rivoluzionaria, “Tre sorelle”. Fiordaligi e Dorabella capiranno che si può andare “oltre” l’amore tradizionale, quello fedele e monogamo che li lega ai fidanzati Fernando e Guglielmo. La loro insegnante di emancipazione e di educazione sessuale sarà la servetta Despina. Costei è il prototipo della donna libera e indipendente che vuole restare single e non diventare una casalinga scoppiata e schiava del suo uomo. Impartirà alle padroncine spregiudicate lezioni di comportamento, spiegando loro quale sia il significato da dare alla parola “amore”.
«Amor cos’è: piacer, comodo, gusto, gioia, divertimento»
Le “Tre sorelle”
Le due ragazze accettano i consigli e si lasciano corteggiare a incrocio dai due “albanesi” (gli stessi fidanzati camuffatiti), provando il piacere eccitante della trasgressione, sperimentando il brivido dell’illecito e assecondando così un desiderio sessuale istintivo e “naturale”. Anche per il vicino di casa, il “vecchio filosofo” Don Alfonso, gli istinti erotici non sono un tabù proprio perché “naturali” e quindi permessi, come del resto è cosa lecita il c.d. tradimento.
«È la fede delle femmine come l’Araba Fenice/ Che vi sia ciascun lo dice/ dove sia nessun lo sa». E più avanti, nel recitativo del finale «l’amante che si trova al fin deluso, non condanni l’altrui ma il proprio errore, giacché giovani, vecchie e belle e brutte, ripetete con me, così fan tutte!»
Ogni parola del testo è orientata a proporci un’innovativa visione di vita, ad insegnarci che bisogna rompere i recinti dell’ipocrisia (oggi diremmo del polically correct!) seguendo gli istinti di natura. Ma… questi sono i medesimi principi enunciati nell’ ”Emile” di Rosseau!
Già il libertino Da Ponte, prete spretato, avventuriero, poeta, letterato professore, è un convinto illuminista, proprio come Amadè (a lui piaceva farsi chiamare così). Entrambi conoscono Lucrezio, Ovidio, Ariosto, Shakespeare, Goldoni, Rousseau, Diderot, Voltaire… e producono in collaborazione opere rivoluzionarie per i costumi. Veri manifesti libertari che anticipano i fermenti della rivoluzione francese e persino le idee di Bertrand Russel, degli Hippy, fino a spingersi nell’attuazione dell’“amore liquido” (“Così fan tutte”) e del sesso transgender (Cherubino, personaggio en travesti ambiguo e borderline).
Gli anni spumeggianti di Rossini, Bellini e Donizetti sulla figura del librettista
Con i primi decenni dell’800, inizia il declino del prestigio del librettista, derubricato a semplici “poeta per musica”. L’epoca dei grandi autori pare terminata. Ora operano scrivani privi di qualsiasi autonomia e prestigio, in quanto al servizio di impresari e compositori. Il passaggio dal classicismo al romanticismo avviene attraverso testi di qualità mediocre. E questo sia nell’opera buffa che in quella seria, forma predominante negli anni 1830 e seguenti.
Gli autori continuano a ricorrere a figure retoriche, onomatopee e giochi linguistici come fatto dai loro colleghi del ‘700. Ma la vena è meno fresca e felice, i codici mancano di sapienza scrittoria e di chiarezza, facendo perdere molta di quella funzionalità teatrale e musicale che è prerogativa di un buon legame tra parole e musica. Tale flessione ispirativa e stilistica si verifica in tutti i collaboratori dei maggiori compositori, ossia Rossini, Bellini e Donizetti.
Si distinguono soltanto, per Rossini: Angelo Anelli (L’italiana in Algeri), Luigi Balocchi (Il viaggio a Reims), Francesco Berio (Otello), Jacopo Ferretti (Cenerentola), Gaetano Rossi (Semiramide), Cesare Sterbini (Il barbiere di Siviglia), Andrea Leone Tottola (La donna del lago). Per il Bellini: Felice Romani (Il pirata. La straniera, Zaira, Norma, La sonnambula e Beatrice di Tenda). Per Donizetti: Salvatore Cammarano (Lucia di Lammermoor), Giovanni Ruffini (Don Pasquale) e Felice Romani (L’Elisir d’amore, Anna Bolena, Lucrezia Borgia).
Il compositore che ebbe il maggior numero di librettisti fu ovviamente il genio bergamasco il quale, anche se morì a soli 50 anni, ebbe il tempo di comporre ben 73 melodrammi, oltre a sinfonie, cantate e a 115 composizioni di musica sacra. Non per niente in vita lo chiamarono scherzosamente “Maestro Dozzinetti”…
Il miglior “poeta per musica” fu senza dubbio il genovese Felice Romani, autore di talento prediletto da Bellini e Donizetti. Scrisse circa 100 libretti d’opera. Per Verdi compose un solo testo, quello per il melodramma giocoso “Un giorno di regno”, secondo lavoro del bussetano. Romani fu un gran talento capace di produrre una versificazione vibrante e cantabile, ottenuta anche tramite l’esperta adozione di giochi vocali e accenti metrici.
I libretti d’opera per Giuseppe Verdi, il Cigno di Busseto
“Il Maestro” per antonomasia fu il primo a voler mettere il naso nell’elaborazione dei libretti per i suoi lavori. Studiava, buttava giù idee e versi, suggeriva, imponeva, correggeva… Non per niente i critici, a proposito, parlano di “coautorialità”. Si fidava di pochi professionisti. Compose 26 opere liriche e i suoi librettisti in lingua patria furono soltanto 8.
Oltre al citato Romani, ci sono Andrea Maffei, Antonio Somma, Antonio Ghislanzoni, Salvatore Cammarano con 4 libretti, Temistocle Solera con 5, lo scapigliato Arrigo Boito (2 libretti, “Otello” e “Falstaff”). Il noto Francesco Maria Piave, poeta, traduttore, critico d’arte ed impresario teatrale produsse ben 10 libretti. Si tratta di “Ernani”, “I due Foscari”, “Machbeth”, “Il Corsaro”, “Stiffelio”, “Aroldo”, “Rigoletto”, “La Traviata”, “Simon Boccanegra”, “La forza del destino”. I soggetti però li sceglieva tutti lui, “Il Cigno di Busseto”. Poca roba a cospetto di un Richard Wagner che i libretti d’opera se li scriveva di suo pugno… Verdi si avvalse anche di autori francesi, per esempio nel “Don Carlo” (1867), opera monumentale di ben cinque atti il cui libretto fu affidato alla triade Scribe/Méry/du Locle.
La struggente arte nei libretti d’opera di Puccini
Soltanto ad un antipatico come Theodor Adorno poteva non piacere la musica di Giacomo Puccini. Una musica rivoluzionaria, aperta a commistioni e a suggestioni orientaleggianti, un’armonia volutamente dolce e “debole”. È andato oltre il verismo e ha segnato la svolta del ‘900, il secolo breve che celebra la crisi dei valori borghesi e si apre alla psicanalisi, alla lettura dei sentimenti, allo sperimentalismo artistico tout court. Aria nuova in letteratura, nelle arti figurative, nella musica sinfonica e lirica.
Un musicista così innovativo non poteva che essere molto esigente con la materia (la poesia) che dava voce al suo spirito (la musica). Interveniva generosamente sui testi, anche dopo i debutti. Credeva molto nel lavoro di revisione, e in questo non aveva torto. La prima della “Butterfly”, il 17 febbraio 1904 al Teatro Alla Scala, fu un fiasco. Puccini -nelle vesti di librettista e musicista- ritoccò testo e musica e, alla seconda, al Teatro Grande di Brescia, dopo soli 3 mesi, l’opera fu acclamata da un pubblico entusiasta.
Tutta la trilogia pucciniana (“La Bohème”, “Tosca” e “Madama Butterfly”), si avvalse del talento dell’affiatata coppia Illica-Giacosa, ma i libretti d’opera recano in calce anche il nome di Puccini… Altro collaboratore importante fu Giuseppe Adami, il librettista de “La rondine”, “Il Tabarro” e “Turandot”. La struttura metrica e i versi dei libretti pucciniani sono orientati verso una modernità sottolineata dal registro colloquiale, dalla forma dialogica, dall’adozione di lessemi nuovi e dall’uso di esclamazioni e di alcuni riflessi decadenti, quasi dannunziani.
L’epoca moderna dal librettista Nino Rota ad oggi
Nel corso del ‘900 l’opera lirica tradizionale, in profonda crisi, si trasforma. Negli anni ‘30-’60 i compositori Malipiero, Dallapiccola e Pizzetti scrivono musica su testi di D’Annunzio, Bacchelli, Eliot. Si sperimenta, si adottano plurilinguaggi di respiro internazionale, si ridisegna il genere lirico in nuove forme (“Teatro in musica”, “parabola musicle”, “Kammeroper”).
Negli anni ’50-’60 Nino Rota sposa un filone popolar contemporaneo. Il testo de “Il cappello di paglia di Firenze”(1955) porta la firma sua e quella di sua madre. Dagli anni ‘60 in poi si afferma l’avanguardia: Luciano Berio, Luigi Nono, Bruno Maderna,Salvatore Sciarrino e Marco Tutino. Si avvalgono di testi scritti da i più disparati intellettuali (Calvino, Pasolini, Moravia, Sanguineti, Eco, Cacciari).
I testi dei libretti d’opera, fuori dal contesto melodrammatico suonano sempre come campane stonate, come sequela di termini desueti e un po’ buffi, figli di un linguaggio arcaicizzante grondante di “enfatite acuta” e di artifici retorici vari. Tuttavia, sono un genere letterario meritevole d’attenzione e rappresentano comunque un pezzo della nostra storia artistica che vale la pena leggere e analizzare, anche in ossequio all’impulso conoscitivo che ci viene dalla Curiositas, una figura femminile che avrebbe meritato il rango di dea…
Per approfondire: Dizionario minimo e versi di libretti d’opera e poesia in musica