
Carcere di Poggioreale, Napoli. Luci basse, tre grandi buste in scena e una scenografia del tutto assente aprono la scena de “Il Colloquio” di Eduardo di Pietro (regia), tenutosi presso le catacombe di San Gennaro e presto nel corso del Campania Teatro Festival. Tre donne vestite di rosso– rappresentate, non a caso, da tre uomini – aprono la scena attendendo di parlare con chi è dall’altra parte, sia esso un marito, un figlio o un fratello. L’indifferenza iniziale che si percepisce tra loro lascerà il posto all’invadenza più totale di tre donne che si vedranno accomunate dalla stessa sorte.
“Il Colloquio” di Eduardo di Pietro. La forza e la vulnerabilità di tre donne
Ognuna con la sua storia, le tre donne attendono, tra tanti altri, il loro turno per l’incontro con i detenuti. Al di fuori di quelle mura nere tra loro aleggia un’indifferenza e una cattiveria tanto spontanea da predisporre ad un’attesa lunga e estenuante, come quella tanto familiare alle mogli, madri e sorelle dei carcerati.
La stanchezza e il malessere che abita in loro le rende tanto aride da non impietosirsi neanche davanti ad una donna incinta, moglie di un detenuto e in attesa da tre mesi di un primo colloquio con il marito. Iniziano con mezze frasi, fino ad invadere il campo della nuova sconosciuta deridendola e arrivando infine grottescamente a scherzare con lei.
Si crea in scena una sintonia temporanea accarezzata dalla solidarietà femminile che dura giusto il tempo di un caffè. I tre attori in scena, inveendo con veemenza l’uno contro l’altro, restituiscono ai personaggi una forza necessaria a fronteggiare qualsiasi ingiustizia e sopruso, ma che rivela al contempo tutta la loro fragilità. Ciononostante, lì fuori la rabbia è tanta, la stanchezza pure e non c’è voglia di piangere ancora.
Stanchezza e delirio. L’esasperazione di un malessere
Malgrado le poche note intonate che le tre donne suonano in accordo, la vulnerabilità a furia di domande indiscrete si esprime nello sfogo di un comune desiderio d’evasione e dramma. La loro tragedia personale è pressoché identica, intrisa di responsabilità da donne e madri nelle vesti, al contempo, anche di uomini e padri.
È proprio questo ruolo maschile -benché per loro non sia naturale- che fa capire la trasformazione che ognuna di loro ha dovuto affrontare. La difficoltà di vivere da donna in una realtà di soli uomini rivela sin da subito il suo destino imposto: la rassegnazione di vivere lunghe e impietose giornate e l’anelito di una vita diversa.
Confessioni e consapevolezze. Un dramma allo specchio
Fuori dal carcere il tempo non passa mai. È sempre lo stesso orario. Sperando in un colloquio che non avverrà, l’attesa fa luce sul dolore e sulle piaghea della città. Quando non c’è alternativa di vita e le possibilità non ci sono, si continua a condurre la vita che il fato ti ha porto e alla quale si è quasi subito iniziati. Figli, fratelli, padri, tutti con uno stesso destino. Delinquere, rubare e… ammazzare, di lì il passo è breve. E ci si ritrova subito dall’altra parte, dove l’offesa è presto che subìta.
La detenzione vista come una fatalità vicina è una pena ingiusta da scontare, una pena che sa di morte perchè «lì dentro sicuro li uccidono». Ed è la percezione di questa morte a deturpare e rendere amara la vita dei tre personaggi che si ritrovano, in ultimo, l’uno accanto all’altro. Sospirano e confessano a se stessi -e al pubblico- tutto il dramma di una vita intera vissuta a metà tra il carcere e la casa, tra la rassegnazione e la voglia di portarsi lontano da lì.